L’America robotica degli anni ‘80

Assistenti, mostri, guerrieri, metafore dell’umanità o suoi partecipanti? Dall’archivio Domus ci tuffiamo in una mostra del 1984 che da New York cercava attraverso la storia di dare identità ai robot, oltre Asimov e Mazinga.

Momento complesso per essere un robot, i primi anni ’80. Ormai passati dall’immaginario – quello umanoide di Isaac Asimov, o delle grandi entità guerriere dei manga giapponesi come Mazinga e Ufo Robot Goldrake – alla dimensione di sperimentazione, di laboratorio, negli anni subito successivi agli androidi di Star Wars i robot stavano facendo il loro ingresso nella realtà, non senza preoccupazione da parte della società che li avrebbe accolti. Servi, sostituti, vivi, inerti, pericolosi? Ma soprattutto, cosa o chi sono i robot? Domanda che in molte mostre successive come quella del 2017 al Vitra sarebbero potute suonare quasi ingenue, ma nel 1984 veniva indagata attraverso la storia, in una mostra che partiva da New York e che la Domus di Alessandro Mendini esplorava nel giugno di quell’anno, sul numero 651.

domus - robots
Domus 651, giugno 1984

Robots

I robots sono appena nati. Da poco — usciti dall'adolescenza dei laboratori di ricerca — hanno fatto il loro trionfale ingresso nella nostra vita quotidiana.
Eppure una volta raggiunto il vertice tecnologico della nuova rivoluzione industriale, gli automi sono già diventati pezzi da museo, reliquie archeologiche di un futuro che sembra già passato. Questa è l'impressione di chi visita la mostra «The Robot Exhibit» organizzata da gennaio a maggio dall'American Craft Museum di New York.
La mostra — una rassegna storica di robots, cyborgs, automi e androidi — girerà nei prossimi due anni gli States, ospite di altri 11 musei dalla California all'Illinois.

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Domus 651, giugno 1984

Può sembrare strano che una tecnologia così recente che ha davanti a sé, per opinione unanime, un grande e straordinario futuro, venga già celebrata addirittura nei musei, quasi si trattasse di un'espressione culturale matura.
D'altra parte il mito del robot è molto antico e profondamente radicato nella nostra memoria e nell'immaginario popolare.
Un mito che si è sempre nutrito di terrore e fascino, irresistibile attrazione e paura (Frankenstein e il Golem sono i due esempi più classici). Come si vede si tratta di sentimenti nati molto prima che la microelettronica dei computers permettesse ai robots di uscire dalla fantascienza per entrare nella cronaca come prodotti di serie.

La mostra di New York espone 160 oggetti che raccontano cronologicamente la storia di questo lungo conflitto di sentimenti.
Si tratta di giocattoli, sculture, meccanismi inutili, opere d'arte, robots industriali e da spettacolo, robots costruiti per hobby o per assemblare automobili.

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Domus 651, giugno 1984

Una rassegna che parte da un piccolo cane di legno frutto del lavoro di un oscuro artigiano dell'Egitto dei faraoni e si conclude con l'ultimo robot «intelligente» creato dalla Unimation per l'industria americana. Dal coni tonto tra robots del passato e operai meccatronici del presente, figli tutti dello stesso mito, vien fuori però una grande difterenza. Quelli del passato prossimo e remoto, i robots fantastici e inutili, rivelano nelle loro forme tutta la tensione con la quale gli autori si sforzavano di superare i limiti imposti da tecnologie insufficienti. Al contrario, i più sofisticati tra i robots moderni, capaci di performance strabilianti (ad esempio: manipolare in orbita i satelliti artificiali), appaiono ai nostri occhi come banali meccanismi, ben poco spettacolari in sé.

Le loro forme, il loro design, non ci dicono niente, appiattite come sono dalla funzionalità produttiva per la quale sono stati creati. Servitori fedeli, incapaci di ribellioni o sorprese, totalmente privi di fascino. È una strana mostra dunque quella del Craft Museum. In parte è la celebrazione di un rinnovato mito tecnologico; per il resto si limita a esporre la salma di una millenaria utopia.

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