Quando Alessandro Mendini ha incontrato Laurie Anderson

Quarant’anni fa, in conversazione col direttore di Domus, la cover star della rivista, figura di riferimento della performance art e della musica elettronica, esplorava il futuro della tecnologia e delle città, il loro ruolo nella società e nell’arte.

Al nome di Laurie Anderson si associa la più vasta accezione possibile dell’idea di performance art. Fin dagli anni ’70 l’artista statunitense si è cimentata con suono, immagine, parola esplorandone i confini scrivendo, recitando, cantando e componendo, introducendo la tecnologia nell’arte attraverso l’elettronica, come col violino tape-bow che sostituiva al crine dell’archetto una canzone su nastro magnetico da suonare su microfono. O Superman del 1981 la rende celebre come artista da classifica – e abusata in Italia, dove il Ministero della Salute usa la composizione in una campagna contro l’Aids famigerata per messaggi di stigma contro le persone sieropositive, oltre che per l’assegnazione illecita del progetto – ma nei 5 decenni della sua carriera, anche come prima artista residente della Nasa nei primi 2000, Anderson è stata principalmente anticipatrice di tematiche che percorrono l’arte contemporanea – “L’etica è l’estetica del futuro”, cita in apertura di un’opera comparsa su Domus nel 1977 – e delle riflessioni odierne sulla tecnologia (computer capaci di imparare) e sul suo ruolo nella società. “Uso la tecnologia perché essa appartiene alla vita quotidiana di molte persone e il mio lavoro è descrivere quella vita”, diceva ad Alessandro Mendini, in questa conversazione del gennaio 1984, che assieme alla copertina apriva il numero 646 di Domus

Domus 646, gennaio 1984

Colloquio con Laurie Anderson

Come si coniuga l’impersonale tecnologia dei filmati, degli slides e degli strumenti elettronici con le tue canzoni e i tuoi racconti autobiografici?
Prima di tutto, non sono sicura che la tecnologia sia impersonale. In realtà mi interessa il modo in cui la tecnologia è stata e può essere umanizzata. Molti americani fanno le loro conversazioni più intime al telefono. Forse perché è più facile dire cose personali quando non si vede l’altra persona – quando l’altro diventa una voce senza corpo. Penso che l’elettronica sia un’estensione del cervello; la tecnologia ha una velocità e un’immediatezza analoghe a quelle del pensiero umano. Uso la tecnologia perché essa appartiene alla vita quotidiana di molte persone e il mio lavoro è descrivere quella vita.

Nelle tue performances, gli strumenti musicali diventano oggetti parlanti, quasi un “doppio” con cui dialogare ed ironizzare sull’umano. Ti interessa forse una vita dell’oggetto come romanticità della tecnologia?
Il mio obiettivo non è l’ironia. È un tentativo di descrivere e di capire. Forse è romantico animare la tecnologia; ma io credo che il confine tra oggetti animati e inanimati sia a volte molto sottile. Pensa a come molta gente vede la propria macchina: un animale ammaestrato. Oppure, in inglese, molte delle parole usate per descrivere l’elettricità suggeriscono la vita: live wire, per esempio. Qualcosa che ha tanta energia da sembrare vivo. In uno degli spettacoli che ho fatto in “United States” c’è un portalampada.

Domus 646, gennaio 1984

In America i portalampada sembrano piccole facce. La luce (nello spettacolo) esce dagli “occhi” del portalampada, e ulula come un lupo. Inoltre, poiché le macchine iniziano non solo a ripetere le informazioni, ma anche a imparare effettivamente le cose, ci sarà una rivoluzione nel campo della manutenzione. Bisognerà portare il proprio home computer al negozio per qualcosa di simile a una consulenza psicologica. Gli insegneremo a riapprendere certe cose, in modo che possa procedere sulla base di nuovi presupposti esatti.

Per il tuo lavoro il paesaggio urbano è una fonte ricchissima di annotazioni e di ricordi, sottili ed ironici, sul quotidiano. Ma quando cammini in una città guardi più al microcosmo personale oppure al macrocosmo architettonico?
Sono sicura che se vivessi in campagna tra gli alberi e gli animali il mio lavoro sarebbe diverso. Ho scelto di vivere a New York perché questa città è piena di gente strana: gente diversa da me. Il mio lavoro è quello di una spia. Vivo qui perché (a differenza di Los Angeles, dove la gente non esce mai dalla propria macchina) le persone devono confrontarsi tra loro.

“United States 1-4” ha assunto una scala operistica, che aggiunta a “Superman” ti colloca nell’empireo delle grandi cantanti. Ti si può definire la Callas sperimentale della new music americana?
Penso che il mio lavoro sia la più antica forma d’arte: il cantastorie. Cambio la mia voce non per rendere più bello il suono, ma per raccontare meglio la storia. Il virtuosismo vocale è al di là di me. Indosso voci diverse come se fossero costumi: la voce del l’autorità, la voce della coscienza, la voce della radio, quella del telefono.

Domus 574, settembre 1977

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