Bruno Latour

(1947-2022)


Tutti gli editoriali scritti in esclusiva per Domus dal grande filosofo, sociologo e antropologo francese.


Bruno Latour

“A proposito della difficoltà di essere ‘glocal’”

“Come possiamo prendere in considerazione non solo diverse identità con diversi gradi di estensione, ma anche diversi universi?”

L’editoriale è stato pubblicato sul numero 867 di Domus nel febbraio 2004.

L’Universalismo, un tempo, era una cosa piuttosto semplice: più ci si teneva a distanza dalle tradizioni locali, più si diventava universali. Se gli Stoici si potevano definire “cittadini del mondo”, era perché accettavano di appartenere alla “razza umana”, prima e oltre che alle etichette riduttive di ‘Greco’ e di ‘Barbaro’.

Una scala regolare di valori sembrava condurre gradualmente dal locale al globale, e offrire così una bussola per decifrare ogni posizione. Fino a poco tempo fa, più si era moderni, più si potevano salire questi gradini; meno si era moderni, più si era confinati in basso.

Ma oggi le cose sono del tutto cambiate. Cosa c’è oggi di davvero ‘universale’? Il nuovo ordine mondiale americano o la Repubblica Francese? Le forze della globalizzazione o coloro che si dichiarano anti-mondialisti? Gli agricoltori ogni giorno condizionati dalla fluttuazione dei prezzi dei beni di consumo o gli insegnanti locali isolati dietro le pareti del “servizio civile”? Gli indiani dell’Amazzonia capaci di mobilitare a loro difesa le ONG o qualche famoso filosofo chiuso nel suo campus? E che dire della Cina? Certamente un miliardo e mezzo di persone aggiungeranno un certo peso alla definizione del mondo alla quale decideranno di aderire, a prescindere che questa sia considerata o meno ‘locale’ dagli Occidentali – sempre che esista ancora un Occidente.

A dire il vero, la situazione è oggi ancora più confusa perché, come molti antropologi hanno dimostrato, la gente inventa nuovi ‘localismi’ più rapidamente di quanto la globalizzazione sia capace di distruggerli. Ogni giorno vengono inventate nuove tradizioni, nascono intere culture ed emergono nuove lingue; e lo stesso accade per le affiliazioni religiose, che diventano ancor più radicate di quanto non lo siano state in passato. È come se la metafora delle ‘radici’ si fosse capovolta: quanto più le identità vengono sradicate dalle forze della modernizzazione, tanto più esse attecchiscono al suolo. Oggi la modernizzazione, nonostante i suoi chiari presupposti, è diventata più confusa di una partita di ‘Go’ nel bel mezzo del gioco.

Domus 867, febbraio 2004

Da qui il successo del termine ‘glocal’, che dimostra come le etichette non possano più essere stabilmente collocate lungo la vecchia scala di valori, allineandosi – per estensioni successive – dalla più locale alla più universale. Invece di sottrarsi l’una all’altra, le identità in conflitto si sommano tra loro. E tuttavia rimangono in conflitto, a tal punto che diventa di continuo necessario ristabilire un ordine, visto che non si può appartenere a tutte quante contemporaneamente… Ma se la bussola della modernizzazione ruota ormai in modo incontrollato, come possiamo distinguere tra i requisiti legittimi e gli illegittimi di un’identità glocal?

Dobbiamo innanzitutto abbandonare la brutta abitudine di mettere in fila tutte le entità della società – dalla più grande alla più piccola – attraverso una sorta di effetto zoom. ‘Grande’ e ‘piccolo’ sono in realtà termini sprovvisti di un vero significato pratico. È insomma sbagliato pensare che la nostra società funzioni come una serie di Matrioske l’una infilata nell’altra, con la più grande che raffigura il mondo e quella più piccola che ospita invece i segreti più intimi presenti nel cuore di un individuo. Wall Street non è uno spazio più grande – per fare un esempio – della striscia di Gaza. Dalla sala riunioni di IBM, non si vede più lontano di quanto possa vedere un negoziante di Jakarta. Per non parlare della Sala Ovale: chi può ragionevolmente ritenere che oggi sia abitata da persone con ‘vedute’ più ‘larghe’ di quelle del mio portinaio? Quello che oggi realmente intendiamo per grandezza è “essere connessi”. Non c’è dubbio che un piano di Wall Street sia più connesso ad altri luoghi della Terra, grazie ad un numero maggiore di canali, rispetto al mio studio; ma non è per questo più grande o più ampio; non si vede più lontano; non è più universale di un qualsiasi altro luogo. Tutti i luoghi sono allo stesso modo locali – e come potrebbe essere altrimenti? – ma sono connessi in maniera differenziata l’uno con l’altro. Senza queste connessioni, siamo tutti ciechi.

È insomma sbagliato pensare che la nostra società funzioni come una serie di Matrioske l’una infilata nell’altra, con la più grande che raffigura il mondo e quella più piccola che ospita invece i segreti più intimi presenti nel cuore di un individuo

È quindi la qualità di ciò che viene trasportato da un luogo all’altro a creare asimmetrie tra gli spazi, visto che uno si può ritenere “più grande” di un altro solo fino a quando le sue connessioni restano attendibili. Non accade mai che uno spazio sia – in sé e per sé – più universale, più inclusivo, più aperto di qualsiasi altro. Solo dopo aver capito questo radicale ‘appiattimento’ del terreno, solo dopo avere stabilmente ubicato in uno spazio specifico ogni prospettiva globale e dopo aver focalizzato la nostra attenzione sulle reti di connessione, è possibile porsi una seconda domanda: dato che noi vediamo qualcosa solo grazie a quello che circola tra i luoghi, come possiamo renderci conto della fragilità delle nostre stesse interpretazioni? Un club non è buono o cattivo sulla base della sua estensione – non è migliore se più inclusivo o, al contrario, se più esclusivo – ma per la sua abilità a misurare la natura delle sue stesse limitazioni quando esclude o include altri membri. Ecco perchè la vecchia etichetta di ‘cosmopolita’ potrebbe assumere oggi un nuovo significato.

Copertina Domus 867
Se ‘cosmopolita’ è un aggettivo adatto per una rivista di moda, la cosmopolitica è al contrario il dovere del futuro, l’unico modo per costruire una Domus comune.

Sebbene Ulrich Beck abbia recentemente provato a usarla come sinonimo di “assumere contemporaneamente identità multiple”, Isabelle Stengers ne ha proposto, in precedenza, una versione molto più radicale: la politica del cosmo. Come possiamo prendere in considerazione non solo diverse identità con diversi gradi di estensione, ma anche diversi universi?

Che anche il cosmo sia a portata di mano è un’idea nuova e inquietante. Una volta, accanto ad una sola natura esistevano culture diverse, alcune delle quali erano ‘limitate’ al loro punto di vista locale, mentre altre erano abbastanza aperte da offrire un attestato di appartenenza ai “cittadini del cosmo”. Ma come si fa oggi a costruire la Città per questi cittadini? E qual è la casa comune che dovremmo abitare? Una sfida che non si può banalizzare dicendo che “è sempre meglio avere una prospettiva più ampia”, dato che una prospettiva più ampia semplicemente oggi non esiste più. Nella vecchia prospettiva cosmopolita, non c’era spazio né per la politica né per il cosmo, perché il parametro più alto era già dato: bisognava solamente staccarsi dai propri legami per raggiungerlo. Ma nella prospettiva di Stengers, non c’è sfida più difficile che inventare degli strumenti politici capaci di svelare come gli universi – tutti gli universi – differiscano l’uno dall’altro. Ed ancora più rischioso è lo sforzo di immaginare come questi universi potrebbero essere raccolti in un futuro ordinamento comune.

Se ‘cosmopolita’ è un aggettivo adatto per una rivista di moda, la cosmopolitica è al contrario il dovere del futuro, l’unico modo per costruire una Domus comune.

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