Bébé Colère, un grido di disperazione girato in CGI

Il film prodotto dai registi Caroline Poggi e Jonathan Vinel è parte di Finite Rants, ciclo di opere video commissionate da Fondazione Prada che mette al centro il saggio visuale e l’indagine sui temi nodali della contemporaneità. Abbiamo intervistato gli autori.

Già nel 1940 il regista d’avanguardia Hans Richter individuava nel video saggio o video essay una forma espressiva capace di valicare i diversi generi classificati nel campo cinematografico, attraverso una trasgressione delle convenzioni linguistiche, così da restituire la libertà creativa e la complessità degli argomenti trattati. Una serie di “immagini per nozioni mentali” in grado di “ritrarre concetti” su cui si focalizza anche il progetto online di Fondazione Prada Finite Rants, curato da Luigi Alberto Cippini e Niccolò Gravina, che ha commissionato a otto tra cineasti, artisti, intellettuali e studiosi internazionali, opere video capaci di portare l’attenzione sui temi focali emersi nel 2020, anno di repentini e profondi sconvolgimenti che hanno condizionato l’intero pianeta.

Tra questi, non è passato inosservato Bébé Colère, la creatura in CGI (Computer-Generated Imagery) creata da Caroline Poggi e Jonathan Vinel, che nel 2019 hanno realizzato il loro primo lungometraggio Jessica Forever, presentato in anteprima ai festival di Toronto e Berlino e apparso nella programmazione del Cinema di Fondazione Prada. Bébé Colère è la storia di una bambina abbandonata da chi l’ha messa al mondo, che fin dai primi giorni di vita deve misurarsi con l’adattamento a una soggettività contemporanea e con i problemi dello sviluppo psicologico. Il personaggio, che viene ambientato con toni onirici e distopici in stanze anguste, sulle ali di aerei in volo, in riva al mare, tra le campagne e le foreste inospitali, convive con la solitudine riempita da amici immaginari, con domande esistenziali e quesiti senza risposta, oscillando tra momenti di tristezza, illusione e disperazione. 

Quando Fondazione Prada vi ha commissionato il film, qual era l’idea da seguire? È stato semplice muoversi in quella direzione?
Il concetto di Finite Rants era di testare e mettere in discussione la struttura del video saggio come forma a sé stante in relazione al presente. La proposta ci venne fatta durante il primo lockdown in un momento in cui il cinema si era fermato e la maggior parte delle immagini prodotte erano documentarie e/o di giornale. Un periodo nuovo, insolito e oscuro, pieno di dubbi e incertezze; perciò l’obiettivo del lungometraggio è proprio quello di abbracciare l’ignoto e il caos che ci circondano. Esplorare e cogliere i materiali della contemporaneità per esprimersi; è così che l'abbiamo presa ed è stato semplice e naturale muoverci in quella direzione.

Il leitmotiv della serie Finite Rants è il video saggio. È stato il vostro primo approccio al genere? E come avete impostato il lavoro?
Abbiamo trasformato i test visivi in un destinatario. Abbiamo cercato di dare al film l'autonomia di un personaggio, come se iniziasse a parlare con noi, a vivere e a conquistare la sua indipendenza. È così che recepiamo le parole “saggi visuali”, come oggetti unici, non convenzionali e autonomi. In generale, conosciamo bene questo approccio formale. Cerchiamo continuamente di trasformare i nostri film in personaggi: dando forma alla materia, creando rotture, difetti, frammenti, simbiosi... Siamo sempre stati ispirati da questi: Godard, Marker, Farocki, Debord...

Credete che il video saggio sia un genere vicino alla sfera artistica o soltanto a quella cinematografica?
Proprio perché non è né l'uno né l'altro, il test visivo è così interessante. Non dobbiamo conservarlo in una scatola predefinita: perderebbe tutta la sua identità e la sua forza. Il test visivo è un oggetto non classificabile, mutante. È un linguaggio a parte, il risultato di un esperimento. Sposta lo sguardo, rompe i codici, annulla i confini. È difficile da descrivere. Bisogna vederlo, sentirlo, viverlo.

Bébé Colère, 2020, still del video. Video saggio di Caroline Poggi e Jonathan Vinel. Courtesy Caroline Poggi e Jonathan Vinel, Fondazione Prada

Il film Bébé Colère è caratterizzato da sentimenti quali frustrazione, costernazione, solitudine, disperazione. Sentimenti di cui è vittima un innocente, un neonato. Che aspetto di questo film percepite come autobiografico? Ci sono elementi che vi legano personalmente a Bébé Colère?
Bébé Colère è letteralmente nostro figlio. È stato girato nei nostri rispettivi villaggi tra Tolosa e la Corsica, e noi interpretiamo i genitori della bambina. Il testo è venuto da sé, come un lungo vomito di cui dovevamo liberarci. Avevamo bisogno di plasmare questa rabbia, la paura, il dubbio, il disgusto... Sentimenti che provengono dalla frustrazione e dalla violenza che proviamo. Ciò non funziona per il film; semplicemente è lì, è presente dentro e intorno a noi. Accade solo perché si possono vedere le persone. Stranamente, dare forma alle sue emozioni gli permette di superarle e di non sprofondare nel puro nichilismo disfattista. C’è qualcosa di combattivo nel film in quanto nonostante predomini la rabbia, vi è anche l'invidia e la fede dell’altro.

Le vicissitudini del 2020 hanno unito il mondo intero, cambiando le nostre abitudini. Possiamo, in un modo o nell’altro, considerare Bébé Colère un prodotto di quest’anno?
Bébé Colère è certamente figlio del 2020 (e incubato negli anni precedenti...). È stato un anno particolarmente costruttivo: ci ha scossi, ci ha obbligato ad abbandonare una determinata routine. Ha messo il mondo in ginocchio. La vita è diventata più complicata e lo Stato ha iniziato a occupare un ruolo importante nelle nostre vite, emanando nuove regole sempre più restrittive. Ora abbiamo la certezza che qualcosa stia finendo, nel bene o nel male, in entrambi i casi. Il 2020 ci ha mostrato che la norma è raccapricciante e che è proprio la nostra comoda routine ad essere insopportabile.

Bébé Colère, 2020, still del video. Video saggio di Caroline Poggi e Jonathan Vinel. Courtesy Caroline Poggi e Jonathan Vinel, Fondazione Prada

Nel film realizzato in CGI la protagonista è digitale ma gli sfondi sono reali. Come li avete scelti?
Nel raccogliere ciò che amiamo, abbiamo per prima cosa trasformato i “fondi”. Non era previsto che diventassero sfondi e non avevamo pensato di usarli per un film o di inserire in essi una bambina. Erano solo immagini di luoghi che conosciamo, che amiamo e che sono parte di noi. Siamo letteralmente cresciuti in questi spazi. Li abbiamo visti cambiare, vediamo cosa rimane, cosa si trasforma, cosa si danneggia. Sono luoghi che racchiudono un bagaglio: ricordi, opinioni, stili di vita, un’ideologia, un rapporto con il mondo. La bambina è comparsa d’istinto, ha organizzato gli spazi; rappresenta il filo che lega fra loro le perle della collana. È lei ad alimentare tutti gli elementi disparati del film e a renderli vivi.

In Bébé Colère ritroviamo costantemente un elemento punk che stona con la figura della piccola protagonista. Perché avete voluto inserire questo contrasto?
È un modo di abusare del film e dell’essere, di rivelare le emozioni. È come una reazione chimica tra due elementi opposti: crea, distrugge, scuote, esplode... Il contrasto crea difetti, dà sollievo, complica le figure e il pensiero. Vi ci rifugiamo perché è lì che le nostre emozioni si originano, tristi o gioiose che siano. È qualcosa che ci stimola. È legato sia alla tragedia sia alla commedia. Si è attratti dagli estremi opposti. Ci piace ridere tanto quanto ci piace piangere. I nostri film si sono sempre basati su archetipi e cliché. In Bébé Colère, il contrasto genera ironia. La cosa interessante dell’ironia è che non si sa mai davvero come prendere le cose, se si deve essere offesi, ridere, piangere, accondiscendere... E nonostante tutto, qualcosa ci tocca, e perciò reagiamo; ciò accade anche quando l’artificio è troppo visibile o eccessivo. In fondo, tutti siamo consapevoli che nelle parole dei bambini si celano verità, parole che colpiscono, che fanno vibrare qualcosa in noi. Farle uscire dalla bocca di un bambino significa renderle “pure”, perché non ha scuse. Lui rappresenta l'essere zero, è appena arrivato, nuovo di zecca, morbido, tenero. Ed è già così deluso e smarrito.

Fondazione Prada, Jessica Forever, Caroline Poggi e Jonathan Vinel. Foto Niccolo Quaresima

Da cosa traete ispirazione, nel mondo del cinema e non solo?
Per questo film ci siamo ispirati ai Canti di Maldoror. Questo lungo testo spietato ma al tempo stesso magnifico in grado di innalzare e divertire il nostro senso morale. È un testo misterioso che non sappiamo come prendere ed è proprio questo ad affascinarci. Inoltre, Bébé Colère si ispira alle persone che hanno contribuito alla sua creazione. Lucien Krampf, che gestisce la parte in 3D del film, era presente fin dall’inizio. Lucien ha un’idea reale della tecnica e trova le soluzioni in modo da avvicinare il progetto alle sue ambizioni artistiche. Quando parliamo con lui tutto sembra semplice e possibile, il che è raro, prezioso e molto motivante. Senza di lui e il suo team (Stanislas Bécot e Hugo Glavier, ndr.) Bébé Colère non esisterebbe. Allo stesso modo, la collaborazione con Barbara Braccini, la quale interpreta la voce della bambina, ha contribuito ad alimentare il carattere e il tono del film. La sua voce adolescenziale leggermente bassa è servita a rafforzare il contrasto, il lato “oscuro” del nostro simpatico Toon. Nel film abbiamo anche utilizzato due brani del suo primo One Life-EP (con lo pseudonimo di Malibu). Amiamo la sua musica e da tempo speravamo di collaborare con lei.

Quali sono i vostri progetti in fase di realizzazione?
Finire di scrivere il nostro prossimo lungometraggio e cercare di portare a termine tutti i lavori in corso (cortometraggi, animazioni, ecc.). Abbiamo molti progetti perché non sappiamo mai chi sarà in grado di realizzarli.

Se aveste un budget illimitato e carta bianca per una produzione video, cosa vorreste creare?
Un film di durata illimitata, che sia sempre costruito e in crescita, con centinaia di personaggi che si intrecciano e si mescolano. Un video che possa muoversi in tutte le direzioni. A volte mostravamo dei pezzi, invitavamo altri artisti a collaborare. Sarebbe un film infinito come una grande riunione, una grande festa che non finisce mai, ma che si evolve costantemente, cercando nuove direzioni. Ma sarebbe davvero fantastico non dover scrivere un dossier per poter fare un film!

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