Beirut, le barricate antisommossa diventano i muri della protesta

Con la sua street–photograpy “di architettura”, Diego Mayon racconta molto più delle proteste in Libano.

Com’è noto, le proteste scoppiate in Libano nell’ottobre del 2019 sono nate in risposta ad alcune impopolari proposte fiscali del governo che, nel tentativo di uscire da un deficit ormai cronico, prevedeva la tassazione della benzina, del tabacco e addirittura dei messaggi vocali su WhatsApp. Ma le ragioni dello scontento hanno origini più profonde, e il movimento ha fatto propri argomenti più complessi e radicati, come corruzione e disoccupazione.

L’organizzazione Green Tent, per esempio, si è fatta portavoce di un dissenso germogliato al termine della guerra civile che ha sconvolto il Paese tra il 1975 e il 1990: approfittando della ricostruzione del cosiddetto Centre Ville di Beirut la Solidere  — una società voluta dall’allora primo ministro Rafik Hariri — si è infatti per molti resa colpevole di aver snaturato il cuore storico della città, trasformandolo quel che era sempre stato un luogo di intensa vita commerciale ma anche culturale in un iper moderno monumento al capitalismo, di impronta fortemente occidentale, e soprattutto espropriando edifici e privatizzando lo spazio pubblico. Non è quindi una coincidenza che sia proprio il Beirut Central District (BCD) ad essere oggi l’epicentro delle proteste, come se in quel torto originario fossero da ricercare i motivi, mutuati ed evoluti nel tempo, dell’attuale malcontento.

Diego Mayon, from the series Beirut Barricades
Diego Mayon, dalla serie Beirut Barricades

Attirato dai retroscena di una protesta dirompente ma atipica, che tra tende in piazza e raccolta differenziata va avanti ormai da cinque mesi ma non tutti i giorni, e che ha portato alle dimissioni del primo ministro Saad Hariri, figlio di Rafik, il fotografo Diego Mayon è partito per Beirut intenzionato a ritrarne il volto più quotidiano e meno “notiziabile”. Atterrato però in un giorno infrasettimanale, quando nessuna protesta era in corso, quel che ha più colpito il suo interesse sono state proprio le strade vuote, l’assenza di grida e violenza, la città silenziosa nella sua auto-rappresentazione più inaspettata.

Protagonisti delle sue inquadrature sono diventati allora i sistemi che il governo ha messo in atto per preservare il BCD, al contempo teatro fisico e origine concettuale degli scontri. In un’ideale prosecuzione di Studio, la serie fotografica in cui ha indagato Atene attraverso i suoi bordelli di lusso ma senza ritrarne attrici e attori, Mayon mette a punto un’analisi rigorosa, di taglio squisitamente architettonico, presentandoci la scena dove gli eventi hanno luogo ma evitando di rappresentarne l’azione, e ottenendo così immagini in qualche modo sospese, decisamente attuali eppure senza tempo: con i loro graffiti colorati e le frasi di protesta, i blocchi di cemento e le recinzioni a difesa del potere costituito diventano l’ennesimo muro eretto per dividere una città, per separare chi sta di qua da chi sta di là, per demandare alla Storia il compito di decidere chi ha torto e chi ha ragione.

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