Il successo di Roma è in parte ma indiscutibilmente fondato sulle sue stesse rovine. Rovine di un tempo sempre più antico che, in una stratificazione che non ne compromette la portata monumentale e anzi a volte nel rapporto con le epoche successive la esalta, continua a vivere nel tempo presente, spesso con poche o nulle modifiche se non di tipo conservativo.  Un passato mitizzato, su cui si poggia l’orgoglio e anche la sicumera della capitale e che, a sua volta contemporaneità per gli antichi, è stato più volte protagonista di reinterpretazioni e strumentalizzazioni.  Un classico interprete della rievocazione del passato in declinazione aulica e idealizzante è stato senza dubbio Piranesi, autore nella seconda metà del ‘700 di quelle “Vedute Romane” che furono il testo iconografico di riferimento per i praticanti del Grand Tour.  Anche se entrambi architetti mancati che si sono espressi attraverso l’arte, accostare Giambattista Piranesi a Gabriele Basilico può sembrare un’operazione ‘a prima vista’ peregrina, perché al di là delle similitudini insite nel vedutismo come punto di osservazione privilegiato alla lettura della città, e nell’uso comune ma incidentale del bianco e nero, la fantasia sfrenata e le alterazioni ideologiche del primo contrastano nettamente con la purezza sentimentale e la razionalità contemplativa del secondo.  Ma se per un verso è proprio da questo contrasto che, invece di un cortocircuito, s’innesca un meccanismo di riflessioni inaspettate, per l’altro c’è tra i due autori più di un superficiale rimando. Certo è evidente come l’impianto visivo della fotografia documentaria — indissolubilmente legato al reale non solo per ragioni meramente fisiche (ottiche e, almeno un tempo, e sicuramente nella pratica di Basilico, chimiche) ma anche concettuali — non possa per sua natura riprodurre quello prospetticamente più libero dell’incisione; ma non può passare inosservato il fatto che, con tecniche e motivazioni diverse, il fotografo continui in un certo senso il lavoro dell’incisore.  Del resto così come l’arte di Piranesi, pur catalogatoria, si era disfatta del peso dell’enciclopedismo espresso dai suoi predecessori, così quella di Basilico è arricchita di una componente a suo modo romantica rispetto al determinismo documentale di maestri come Atget, Walker Evans e i coniugi Becher.  È poi proprio nel rapporto col classico, da un lato, e con le rovine dall’altro, che le vedute romane di Basilico assurgono quasi a piccola summa del lavoro del fotografo milanese, tratto finale e serenamente maturo di una storia cominciata con le archeologie industriali da venire di “Ritratti di fabbriche” (1978-80), proseguita con “Beyrouth centre ville” (celebre opera collettiva del 1991, e poi, in solitaria, del 2003) e ancora con i progetti indipendenti su città come Arles, Bari o Palermo (2001, 2005-06 e 2007). Frutto, attraverso l’intuizione di Michele De Lucchi, di un incarico della fondazione Giorgio Cini datato 2010 e destinato a integrare un’importante mostra su Piranesi (interagendo, anche se in un’esposizione solo parziale, con le incisioni del genio veneziano), le 68 tavole fotografiche oggi finalmente tutte raccolte in “Piranesi Roma Basilico” (Contrasto, 2019) e presentate al Museo Ettore Fico di Torino fino al 14 luglio assieme ad altre vedute di città internazionali, sono l’occasione per rivivere da vicino il dialogo tra i due grandi autori, confrontandone similitudini e differenze e valutandone il valore di storia (dell’arte, della fotografia) nella Storia (dell’uomo, dell’architettura). Riprese, quando ancora possibile, dagli stessi punti di vista delle incisioni di Piranesi, ma a differenza di quelle prive di qualsivoglia interpretazione tesa ad alterare il senso della realtà, le fotografie di Basilico mostrano, come al solito, un mondo contemporaneo, dove le vestigia di Roma antica un tempo in rovina sono diventate monumento, e le architetture che una volta rappresentavano lo stato dell’arte si sono trasformate in patrimonio classico. A non cambiare è paradossalmente la presenza umana, gli eredi di quei primi turisti che ancora oggi, in fogge nuove e quantità innumerevoli, abitano strade e piazze di Roma esattamente come nelle incisioni settecentesche, e vero trait d’union tra passato e presente in uno scenario solo apparentemente immutabile.