La pittura come denuncia: dall’arrivo dell’industria alle conseguenze pandemiche

Una verità, una tragedia forse anticipata, quella che si legge in alcune delle tele prodotte tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Numerosi artisti ritraggono paesaggi con edifici industriali, in cui i colori utilizzati denunciano l’inquinamento che questi producono.

Il rapporto tra la diffusione del Coronavirus e l’inquinamento atmosferico è, fin dall’inizio della pandemia, sotto attento studio da parte dell’intera comunità scientifica.

L’indice di letalità e la qualità dell’aria sono in stretta relazione e dipendenza alla predisposizione a patologie polmonari, di conseguenza influisce, in maniera sostanziale, all’esplosione di contagi avvenuti nelle città dove l’inquinamento è più alto, dovuto sia ad una maggiore circolazione di automobili, come accaduto nelle grandi capitali europee, sia alla presenza di industrie.

Di fronte alla nascita delle fabbriche, l’immaginario collettivo di tutti gli artisti dei primi del 900, inizia a concretizzarsi sulla tela. La reazione è stata più che diversificata a seconda delle nazioni e dei movimenti culturali che in quegli anni stavano nascendo o si stavano affermando.

La rappresentazione di paesaggi urbani interessò anche e sopratutto un movimento artistico che ne fece un’apologia nel suo manifesto: il futurismo. 

“Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro…” Un avvenire bisognoso di tempo e velocità, in cui la fiducia che si poneva nei confronti di nuove tecnologie, fabbriche, catene di montaggio, automobili, nuove vie di comunicazione, era quasi smisurata e, al contempo,  decretava la fine delle vecchie ideologie e tecniche del passato. Una glorificazione, la loro, che prendeva forma e sostanza su tele di grandi pittori come Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Vittorio Corona, Giulio D’Anna, Antonio Sant’Elia e molti altri.

Vincent van Gogh, Fabbrica a Asnieres, 1887

Dalla Ville Lumiere un grande maestro dell’impressionismo, Camille Pissarro, ci mostra, attraverso grigi paesaggi, una nuova rappresentazione della campagna francese, che non presenta più, nelle sue cangianti acque, nella sua verde ed accesa vegetazione, una natura incontaminata dai colori brillanti, bensì tristi fabbriche in piena attività che dettano nuove tinte alla natura. Grigio, blu scuro, marrone, verdi non più accesi, queste le nuance scelte da Pissarro. La luce viene attenuata dalle polveri. Nelle acque, grandi campiture di accesi colori lasciano spazio a grigie e tristi sagome di architetture fumanti, come possiamo vedere nell’opera Fabbrica a Pontoise del 1873. Con diverse tecniche e diverse espressioni anche altri due grandi artisti francesi, d’adozione e non, come Vincent Van Gogh o Paul Cezanne, dipinsero paesaggi simili. Il Pittore olandese scelse di non modificare la propria tavolozza per rappresentare il campo di grano antistante alle costruzioni nel dipinto Fabbriche ad Ansnieres, vista dal Quai de Clichiy del 1887, mentre in un altro dipinto, sempre del 1887, Fabbriche ad Ansnieres, che ritrae gli stessi edifici, ma da un’altra posizione più interna e ravvicinata, i colori cambiano, diventano più scuri, tendenti al grigio, tristi, proprio a farci osservare come quelle polveri, che in maniera incessante cadono sulle architetture e sui paesaggi, vadano a modificare la realtà stessa, quasi una lettura ed una critica a queste, anticipando la scienza più contemporanea.

Camille Pissarro, Fabbrica a Pontoise, 1873

La stessa valutazione e denuncia arriva da Cezanne, che in Fabbriche vicino Mont de Cengle dipinto del 1870, ci mostra un paesaggio poco brillante e ricco, quasi desolato, completamente distante da tutte le sue opere. Anche qui i colori diventano opachi, tetri, quasi statici, senza emozione.

Denunce? Anticipazioni del futuro? Tutti questi grandi artisti avevano come loro più grande prerogativa quello di rappresentare e leggere non la loro verità, non una percezione soggettiva, ma una realtà assolutamente concreta e vera. Queste nuove costruzioni non solo modificavano un paesaggio naturale in cui la superficie non era più scandita unicamente dalle stagioni o dalla vegetazione, ma da elementi nuovi e artificiali che rappresentavano il futuro, il lavoro, il progresso, la scienza e la tecnica, che si evolve con l’aiuto del tempo. Un paesaggio non più illimitato ma delimitato. Architetture e costruzioni in cui lo spazio ed il tempo dettano i loro limiti e le conseguenze della loro funzione a cui oggi ci rendiamo, forse, conto che dobbiamo limitare, modificare e sicuramente migliorare.

Immagine di apertura: Vincent van Gogh, Fabbriche a Asnieres, visto dal Quai de Clichy,, 1887

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