“Il Soft Power oggi è art-washing”, Anselm Franke, curatore della HKW

In mostra a Berlino alla Haus der Kulturen der Welt il ruolo del potere della cultura durante gli anni della guerra fredda. L’intervista al curatore.

1, Parapolitics: Cultural Freedom and the Cold War, HKW, 2017, Berlin

Nel 1950 si costituisce a Berlino il Congress for Cultural Freedom (di qui, CCF) che per due decenni ha organizzato conferenze, mostre, concerti in più di trentacinque nazioni per cooptare gli intellettuali di sinistra, delusi dalla brutalità dello stalinismo, verso il capitalismo Alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino fino all’8 gennaio c’è Parapolitics: Cultural Freedom and the Cold War. 

La mostra trae spunto dalla scoperta del 1967 che CCF era della CIA. Non stupisca però che finanziasse anche prodotti formalmente antiamericani, come il nostro Tempo presente di Silone: l’intento iniziale era quello di passare dal marxismo a tutti i gradi del progressismo per condurre verso il liberismo. Si scoprì che la cultura modernista veniva usata come soft power per divulgare il capitalismo di stampo americano su scala mondiale. Parapolitics studia le ramificazioni tra arte e politica nel secolo scorso tutelando sfumature e ambivalenze. È composta a strati: documentazione sulle attività del CCF, artisti che hanno riletto criticamente l’epopea modernista (tra i quali Liam Gillick, Rebecca Quaytman, Walid Raad) e figure storiche che non si sono allontanate dall’impegno politico (Art&Language, Samuel Beckett, Sigmar Polke, e altri). 

L’arte contemporanea ha ancora il potere di esercitare il “potere morbido” che ha avuto in quegli anni? 

All’epoca, le élite intellettuali indirizzavano le opinioni, ecco quindi riviste o convegni cui s’invitavano filosofi e letterati. Il corrispettivo odierno è finanziare una massiccia presenza online: lo fanno Stati Uniti, Russia e la Cina muove i primi passi. Le arti sono tuttora inserite in sfere d’influenza: c’è una parola che mi piace molto: “art-washing”. Descrive il modo in cui l’arte contemporanea – anche perché percepita come forza innovatrice, portatrice di spirito critico e, appunto, “libertà” – sia usata da regimi autocratici per accumulare potere simbolico e mostrare una qualche forma di apertura: negli Stati del Golfo esistono enclave con piena libertà di espressione – gallerie e musei – circondate da città in cui è bandita. Ci sono anche stati transnazionali che esercitano soft-power: pensa a George Soros e alla sua fondazione Open Society che usa l’arte nell’Europa dell’est per promuovere democrazia e una società cosmopolita e progressista, ma coltivando valori consumistici. È impossibile esprimere giudizi netti: Soros sta facendo un lavoro importante, ma il “bundle” con uno specifico assetto capitalistico ha aspetti discutibili. La vera differenza con il CCF non è di ordine ideologico, ma di trasparenza: le persone sanno da dove arrivano i soldi. L’intera cultura borghese per la prospettiva marxista è art-washing: costruisce un’idea di “umanità” e di “progresso” per nascondere i lati oscuri del sistema produttivo. L’idea modernista di storia – e probabilmente questa sarebbe una discussione ancora più proficua in architettura che in pittura – era quella di trovare nuovi ruoli per l’arte, cambiare il mondo. Oggi l’arte critica è un modo di produrre alfabetizzazione culturale. Ecco perché le istituzioni sono fondamentali. Gli artisti devono coltivare il proprio lavoro nella storia cui partecipano. Perché non sono agenti dell’amnesia ma promotori di una conoscenza che si traduce – indirettamente – in consapevolezza politica. E sappiamo quanto questa consapevolezza sia oggi necessaria a tutti e non solo a minoranze o identità identificabili e classificabili.

Nella mostra assistiamo a un “salto mortale” nel quale l’espulsione del figurativo delle avanguardie europee e russe d’inizio del secolo scorso – gradualmente associata a slanci politici – rappresenta il trasferimento di capitale della cultura da Parigi a New York. 

Chiamiamola ri-significazione del modernismo. L’esempio più plateale, in mostra, è l’articolo scritto nel 1952 per il New York Times da Alfred Barr – teorico del canone contemporaneo più purista – in cui si chiede “L’arte moderna è comunista?” Barr voleva disgiungere la correlazione tra arte astratta e progressismo. È stato un momento con tratti paradossali: le peculiarità che i circoli d’avanguardia vivevano come limiti – ermetismo, ardua leggibilità, il desiderio di “distruggere il significato” perché indice della distruzione della cultura borghese – erano improvvisamente virtù. Il dopoguerra è stato un periodo disperato e non una fase di scoperte eroiche come vorrebbe certa storiografia: le grandi battaglie sono già combattute, il ruolo che la cultura può reclamare è diroccato quanto le città dopo i bombardamenti. Prendi la Pop Art: afferma un’autonomia dell’arte in condizioni impraticabili. La biologia o la psicologia, descrivono un pattern comportamentale in cui un individuo di fronte a un avversario più forte tenta di imitarlo: la Pop Art abbracciava la cultura di massa, criticandola. 

In questo processo, è fondamentale la diffusione di una peculiare idea di libertà. 

Durante la Guerra Fredda s’impone una divisione tra le lotte per le libertà individuali e quelle per una società equa. Negli anni Trenta, le polemiche dei Surrealisti con il regime sovietico si giocavano su questi temi: non c’è egualitarismo, senza libertà di espressione. Questa separazione tra le due istanze è il motivo per cui diamo per scontato che la “libertà artistica” possa convivere – contrariamente a quanto sarebbe accaduto un secolo fa – con il liberismo estremo. Gli espressionisti astratti statunitensi erano in larga parte anti-capitalisti, ma si trattava di un anticapitalismo romantico, individualista: l’altra metà della libertà – quella riguardante l’equità sociale – era stigmatizzata poiché associata, nella mente degli statunitensi ed europei dell’ovest, al totalitarismo; al timore di trasformarsi in robot senza personalità. Questa scissione era uno dei compiti del CCF.

Titolo:
Parapolitics: Cultural Freedom and the Cold War
Curatori:
Anselm Franke, Nida Ghouse, Paz Guevara, Antonia Majaca
Date di apertura:
3 novembre 2017 – 8 gennaio 2018
Museo:
HKW
Indirizzo:
John-Foster-Dulles-Allee 10, Berlino

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