Riscoprire Gio Ponti: le immagini inedite di quattro case milanesi

Il portfolio realizzato da Marco Menghi per Domus esplora anche gli interni di architetture conosciute soprattutto per le loro facciate su strada come la celebre Torre Rasini, e ne restituisce un’interpretazione precisa e affascinante.

di Alessandro Benetti
Foto Marco Menghi

La fortuna di critica e di pubblico di Gio Ponti non ha mai conosciuto il periodo di “bassa marea” che hanno attraversato molti suoi colleghi, per quanto illustri. È un’anomalia dovuta forse alla qualità della sua opera; magari alla sua varietà, che l’ha sottratta alle continue oscillazioni del gusto, mostrando a ogni epoca i suoi connotati in quel momento più attuali; o ancora, probabilmente, alla capacità di autopromozione del progettista milanese, trasmessa per così dire geneticamente anche ai suoi eredi. Sempre sotto i riflettori, l’opera pur sconfinata dell’iperattivo Ponti sembra non presentare più alcuna zona d’ombra. Persino la più recente grande mostra monografica, organizzata nel 2018-2019 al Musée des Arts Décoratifs di Parigi (Tutto Ponti. Gio Ponti archi-designer, a cura di Dominique Forest, Sophie Bouhilet-Dumas e Salvatore Licitra), si è configurata come la riorganizzazione critica di un corpus di opere già conosciute più che come un percorso di riscoperta.

Perché, dunque, dedicare oggi un portfolio fotografico a quattro delle opere milanesi di Ponti, quattro case di cui tre prevedibilmente borghesi e una inaspettatamente popolare, anzi di massa vista la scala dell’edificio? La Casa per abitazioni di via Domenichino (1928), la Torre Rasini (1933), la Casa Laporte (1935-1936) e le Case nel quartiere INA Harar-Dessié (1951) non sono le architetture più celebri di Ponti ma certamente nemmeno degli inediti assoluti.

La prima è un esempio piuttosto noto del Ponti degli anni ’20, vicino sul piano stilistico al decorativismo astratto del movimento Novecentista. La torre non richiede presentazioni: è la più nazionalpopolare del quartetto, per la sua presenza urbana – emerge dal verde a lato dei Giardini Pubblici e domina il sempre trafficato piazzale Oberdan – e perché è citata volentieri nelle tante retrospettive sui primi edifici alti milanesi. Casa Laporte è un’interpretazione riuscita ma non rivoluzionaria del tema della casa unifamiliare urbana, comune nell’opera di Ponti vista l’estrazione sociale uniforme e privilegiata della sua clientela. Le stecche del quartiere Harar-Dessié, infine, confermano l’interesse di Ponti a diversificare i temi di progetto, oltre che la capacità di ramificare l’attività del suo studio in tutti i settori dell’edilizia del capoluogo lombardo.

Di questi edifici si è scritto relativamente tanto, eppure sul piano visuale sono rimasti cristallizzati in pochissime inquadrature selezionate. Al limite una sola, come quella frontale della facciata su strada di Casa Laporte, vista da via Benedetto Brin, o quella di scorcio della Casa per abitazioni di via Domenichino, sempre osservata a 45 gradi dal lato nord di piazza Amendola. È una limitazione che ha diverse origini: è dovuta innanzitutto al loro posizionamento urbano, che ne nasconde molta parte nei rispettivi isolati, oltre che al carattere sostanzialmente privato dei loro interni. Da questi e da altri vincoli è scaturita una sorta di reiterazione automatica dello stesso sguardo, al confine tra necessità e abitudine ­– un fenomeno che affligge, per altro, un’enorme quantità di architetture più o meno famose.

Il portfolio realizzato a cavallo tra 2023 e 2024 da Marco Menghi per Domus è un tentativo di rinnovare l’iconografia esistente su quattro opere di Ponti. L’occasione, o piuttosto l’ostinazione a volere accedere agli interni ha offerto la possibilità di una prospettiva radicalmente nuova su queste architetture ormai antiche. Quelli che si erano ridotti a involucri pontiani bidimensionali hanno dischiuso spazi spesso altrettanto pontiani, seppur variamente aggiornati e alterati nel corso del tempo, come quasi sempre capita nel caso degli edifici residenziali. Le facciate hanno ritrovato una connessione con le piante e le sezioni che decenni di semplificazione visuale avevano virtualmente annullato. L’esperimento è riuscito, e l’auspicio è che si possa presto ripetere coinvolgendo altre architetture e altri autori.

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