Il museo come architettura simbolo della nuova Cina

Gli spazi espositivi sono oggi onnipresenti in Cina e i nuovi musei sono tra i punti di riferimento più celebrati del Paese nell’era di Xi Jinping. Ma 30 anni fa Rem Koolhaas aveva previsto qualcosa di diverso.

Nel Corso degli ultimi vent’anni la Cina ha costruito centri commerciali e innumerevoli musei e spazi culturali, delle volte indistinguibili l’uno dall’altro, e lo ha fatto molto più velocemente di quanto quest’ultimi riescano a essere riempiti: non solo nelle città principali, in un batter d’occhio sono sorti in tutto il paese gioielli architettonici.

A Qingdao, la settima città più grande della Cina a sud di Pechino, è stato recentemente aperto al pubblico uno dei più recenti edifici firmati da Jean Nouvel, il Tag museum. Per arrivarci, bisogna attraversare paesaggi dai colori ramati: diverse decine di agglomerati di edifici anonimi ancora in costruzione sagomano un’insipidezza urbana che spunta attorno alla città portuale. Arrivati ai margini della baia, nel campus del museo, la ricompensa è grande perché il significato architettonico del museo è innegabile. Luci, riflessi, trasparenza, virtualità, tutti gli elementi distintivi di Jean Nouvel sono integrati in un continuo e ininterrotto gioco tra interno ed esterno. Possiamo notare cenni importanti come alcune citazioni prese dalla carriera dell’architetto dei decenni scorsi: il tetto del Centro di Cultura e Congressi di Lucerna (2000), la facciata della Fondazione Cartier (1994) e l’evoluzione di quella forma al Quai Branly (2006), i piani della Filarmonica (2015). La sua ambizione è notevole ed estrema: tende elettriche esterne, altezze dei soffitti regolabili, gallerie modulari, soffitti riflettenti, pannelli di alluminio come facciate, museografia totale e mobili progettati su misura. L’edificio onora il manifesto Louisiana e allo stesso tempo rappresenta una sintesi delle firme di Jean Nouvel.

Nel 1995, in Singapore Songlines, Rem Koolhaas aveva previsto che la storia era destinata a scomparire e che dare tabula rasa sarebbe diventata la norma. Per Koolhaas l’esempio della città-nazione della metà degli anni Settanta rappresentava la futura Cina continentale, ovvero “la modernizzazione nella sua forma più pura”. All’epoca della stesura del manifesto di Koolhaas, le città cinesi avevano già iniziato a diventare quella che sarebbe stata la “Singapore” come luogo teorico della modernità. Shenzhen – metropoli tentacolare che collega Hong Kong alla Cina continentale e importante centro di ricerca e sviluppo tecnologico e manifatturiero – è stata la prima zona economica speciale designata da Deng Xiaoping nel 1979, tre anni dopo la morte di Mao. Il suo successivo sviluppo sfrenato negli anni ‘80 e ‘90 ha rappresentato a una brutale rottura con la linea comunista iconoclasta del Partito, in vigore dai Discorsi di Yan’an del 1942 che hanno consacrato il governo di Mao. Quello che aveva innescato Deng era l'avvento dell'ubiquità di una nuova forma urbana che si è poi manifestata in massicci progetti edilizi che hanno simultaneamente travolto le città cinesi alla fine del secolo.

Le città sono state costruite, le infrastrutture sono state ottimizzate per le transazioni, ora come dare qualcosa da fare agli abitanti delle città con disponibilità economiche e tempo libero?

La modernizzazione implementata inizialmente a Shenzhen è infatti avvenuta su una scala mai vista prima nelle principali città cinesi: Pechino, Shanghai, Shenzhen, Guangzhou. La generazione cresciuta durante la rivoluzione culturale ha dovuto fare i conti con il problema di come affrontare la demolizione dei hutongs (edifici residenziali tradizionali delle città cinesi, come Pechino, caratterizzati da corridoi stretti), il tutto mentre imparava a vivere con le nuove tecnologie e nelle nuove città. La Cina è ora arrivata alla situazione della Singapore del 1975 delineata da Koolhaas: le città sono state costruite, le infrastrutture sono state ottimizzate per le transazioni, ora come dare qualcosa da fare agli abitanti delle città con disponibilità economiche e tempo libero? Si può intrattenerli.

Koolhaas ha notoriamente affermato che l’unica attività di questa modernità, esemplificata nelle città asiatiche della fine del millennio, sarebbe stata lo shopping. Ma la proliferazione degli spazi museali e dell’integrazione sistematica delle mostre nei centri commerciali, in quanto fenomeno urbano che si può osservare oggi in Cina, complica quest’ipotesi. Infatti l’estrema promiscuità tra i centri commerciali, gli spazi espositivi e i musei come forme urbane integrate ha portato a un “febbre da esposizioni”: qualsiasi spazio pubblico è potenzialmente uno spazio espositivo.

Questo fenomeno non è nuovo di per sé: attorno la metà dell’Ottocento, durante la prima Esposizione Universale, città come Parigi ne erano incubatori. Ma nel tempo Parigi ha ufficialmente e notoriamente condannato la prossimità del commercio alla cultura e ne è prova il rifiuto della creazione del Paviglione delle Arti e dell’Industria al Louvre. Quello che possiamo osservare oggi nella città cinese è una completa accettazione e interdipendenza della messa in mostra del commercio e della cultura in una città moderna. L’onnipresenza di museo e mostre nella città li ha fatti diventare banali quanto lo shopping o quanto prendere i mezzi pubblici. Nel centro commerciale più grande di Wangfujing, nel centro di Pechino, una vasta retrospettiva dei progetti di Zaha Hadid, sia portati a termine che no, viene trasformata in puro intrattenimento: modelli automatizzati, filmati, stampanti 3D dimostrative, esperienze di realtà virtuale. A Nanchino, UN Studio ha appena ricevuto l’incarico dal gruppo KWah di realizzare un nuovo complesso che ospiterà, tra gli spazi adibiti a vario uso, la più recente concessione dell’Ullens Center for Contemporary Art.

L’esperienza urbana in Cina è più che guidata dalle transazioni. Con l’onnipresenza di musei e mostre di qualsiasi tipo la città può essere considerata una perenne Esposizione Universale.

L’esperienza urbana in Cina è più che guidata dalle transazioni. Con l’onnipresenza di musei e mostre di qualsiasi tipo – comprese le mostre di successo in tournée dai principali musei occidentali, come il British Museum e il Metropolitan Musuem – la città può essere considerata una perenne Esposizione Universale. La possibilità di vedere arte in qualsiasi spazio pubblico, interno o esterno al museo che sia, implica infatti una radicale democratizzazione che ricorda la scala e il potere che ha trasformato la natura delle esposizioni all’indomani del Crystal Palace di Londra.

Dato che le città della Cina continentale hanno spinto la situazione teorica di Singapore a un ulteriore estremo dell’intrattenimento, la cultura dello shopping e la possibilità di fare shopping di cultura sono accessibili in egual modo ma allo stesso tempo due cose separate. Le mostre negli spazi pubblici e commerciali esistono sotto forma di un nuovo e stretto parallelismo, pur resistendo al merchandising puro, condizione intimamente legata alla natura dell’esperienza dello spazio pubblico così come si è sviluppata negli ultimi decenni in Cina. In una proposta per l’esperienza di una città come l’Esposizione Universale, è in gioco la questione della continua rilevanza del museo come forma architettonica distinta e come esperienza di cultura. Oggi con gli innumerevoli musei che sono stati costruiti e aperti negli ultimi vent’anni in tutta la Cina, il Paese è diventato un incubatore fondamentale di ipotesi sul futuro dei musei del XXI secolo e forza trainante crescente nel plasmare il dibattito sulle forme che potrebbe adottare in futuro.

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