Pierluigi Nicolin: “Progettare partendo dal distanziamento può portare a esiti pericolosi”

Nel suo nuovo libro Architettura in Quarantena il direttore di Lotus riflette sulla spontanea trasformazione degli spazi urbani durante la pandemia e invita gli architetti alla modestia, perché le ipotesi sul futuro delle città e dell’abitare proposte in questo momento potrebbero rivelarsi disastrose. Dovremo invece pensare a come ristabilire il contatto. L’intervista.

Pierluigi Nicolin: “Progetteremo come ricontattarci, non come distanziarci”

Perluigi Nicolin, architetto e direttore della rivista Lotus dal 1978, mi racconta le riflessioni che ha raccolto in un piccolo diario, scritto durante la quarantena e terminato a fine luglio. La pandemia ha mostrato alcuni fatti nuovi e imprevisti che ci indurranno a fare delle riflessioni sulle prospettive dell’architettura. La nostra conversazione avviene nei giorni che precedono un nuovo lock-down, per prevenire la diffusione di nuovi contagi.

Il suo diario comincia con il ricordo della preghiera solitaria di Papa Francesco sul sagrato della basilica di San Pietro, il 27 marzo 2020. La piazza, in quel momento, diventa un contro-luogo, uno spazio “eterotopico”.
Il clamoroso evento di piazza San Pietro ha imposto una riconsiderazione sui luoghi di riferimento, investiti da un’inversione dei rapporti usuali, le cosiddette “eterotopie”. Il termine ha un significato medico, originariamente, che indica la presenza di un organo che si sviluppa in una sede diversa da quella normale. Sarà poi Michael Foucault a elaborarne la nozione in termini filosofici: l’eterotopia definisce quegli spazi connessi a tutti gli altri ma in modo da sospendere, neutralizzare, invertire l’insieme dei rapporti che essi riflettono o rispecchiano.  La nozione di eterotopia si è quindi imposta, in una maniera del tutto imprevista, come una condizione generale. Durante il Covid, siamo nella più grande eterotopia mai vissuta.

La nozione di eterotopia si è imposta, in una maniera del tutto imprevista, come una condizione generale. Siamo nella più grande eterotopia mai vissuta

Altri spazi, oltre alla piazza, hanno assunto significati differenti in questa situazione di reclusione forzata, come i balconi, veri e propri “fortini di resistenza”.
Anche la strada, vuota, diventa un luogo “altro”, rispetto al suo ruolo consueto: non funziona più come strada. E il riappropriarsi di spazi dimenticati, come i balconi, che sono diventati dei teatrini domestici, è un fatto interessante, perché mostra anche la riscoperta di un senso di comunità, e il desiderio di voler superare il limite dello spazio.

Questi teatrini, che “emanano un sussulto di vitalità e cenni di intesa”, hanno dimostrato quindi che il virtuale forse non bastava, che c’era ancora bisogno di “manifestarsi”?
Certo, è proprio questo. L’osservazione che potrei fare adesso, a cose fatte, è che un evento svela delle cose: in questo caso ha svelato da un lato la precarietà di molti spazi pubblici e, dall’altro, l’uso del balcone come luogo per esorcizzare la paura.

Abbiamo assistito anche alla trasformazione di altri luoghi importanti, uno su tutti, la scuola, come istituzione e come “edificio”.
Parlo della scuola perché introduce anche la nostalgia della fisicità. Nel momento in cui tutto sembra poter funzionare a distanza, pensare alla scuola rispolvera la nostalgia del contatto, della presenza, del corpo. Ho dedicato questa riflessione citando anche il bellissimo racconto di Azimov, del 1954, che scrive di una scuola fatta del vociare in cortile, del sedersi insieme, del tornare a casa con i compagni, del parlare di quello che si deve studiare. “Una comunità di ricerca guidata da maestri in carne ed ossa”, dove “ i maestri erano persone”.

Parla anche della scuola non solo come istituzione, ma come “strumento mnemonico”.
Parlo di fisicità perché l’aspetto fisico è uno strumento della memoria, ed è un aspetto molto importante: infatti, l’arte della memoria è legata al fatto di associare un’immagine a qualcosa. Per ricordami quel qualcosa, ho bisogno di ricordarmi dove è collocato: la scuola serve anche a questo. Faccio un altro esempio: un grande pregio della biblioteca che uno può avere in casa, è che può ricordargli un sacco di cose anche attraverso la sua fisicità.

Anche gli spazi di lavoro si sono trovati all’improvviso a doversi affidare completamente alla tecnologia e al mezzo informatico.
Si, e questa non deve essere una promessa! Io paleso una perplessità sul distanziamento come concetto da cui partire. Negli anni Sessanta e Settanta erano di moda le tesi del sociologo Melvin Webber: “Community without  propinquity”. Webber immaginava le città del futuro dove gli occupanti avrebbero stabilito dei legami sociali e delle reti di relazioni in un “territorio urbano non locale”, affidandosi alle telecomunicazioni. Quella proposta sta tornando fuori, e insisto nel mio scetticismo. Io faccio l’architetto, sono abituato a lavorare a distanza, faccio un disegno, e lo spedisco, per qualcosa che verrà realizzato, ad esempio, a trecento chilometri da dove sono. Questo lavoro a distanza attraverso la tecnologia lo conosciamo, ma conosciamo anche i suoi limiti.

Le sue riflessioni si estendono anche ad altri settori implicati nel concetto di distanziamento.
Costruire la vita attorno al concetto di distanziamento, introduce questioni problematiche: se tutto è così, “a distanza”, allora anche l’acquisto sarà a distanza, resisterà solo l’e-commerce e chiuderemo tutti i negozi. Progettare senza riflettere, solo nel momento in cui le cose succedono, mi sembra una prassi non auspicabile. È successo negli Stati Uniti con il regno dei malls, un mondo in crisi totale, che ha distrutto quello che è la main street: i negozi delle cittadine americane sono finiti perché tutti andavano a comprare negli enormi centri commerciali affianco alle autostrade. Abbiamo visto e sperimentato cosa hanno portato soluzioni di questo genere, e non è desiderabile. Quindi, questo concetto del distanziamento, dobbiamo augurarci che occupi solo una parte della nostra vita, e non distrugga tutto il resto.

Quindi, questo concetto del distanziamento, dobbiamo augurarci che occupi solo una parte della nostra vita, e non distrugga tutto il resto

La reclusione forzata ha prodotto delle “claustrofobie intollerabili”. Filosofi, scrittori e creativi hanno palesato la difficoltà di affrontare la situazione in modo sereno. Renzo Piano, ad esempio, soffre al pensiero delle sue opere deserte, e si chiede come è possibile creare senza trarre ispirazione dalla realtà e dai contatti con le persone.
Il Coronavirus è una cosa seria, ma, come scriveva Camus ne La Peste, bisogna restare, accettare lo scandalo, camminare nelle tenebre e tentare di fare il bene. Dobbiamo convivere con questa cosa tenebrosa, che non capiamo. Implicitamene però, do una risposta al pensiero di Piano, affermando che le persone sono ben altro rispetto al nostro spazio architettonico. Ne parlo nel capitolo dedicato alla prossemica.

Pierluigi Nicolin: “Progetteremo come ricontattarci, non come distanziarci”
A. Canal, conosciuto come Il Canaletto, Capriccio con edifici palladiani, 1756-1759, Parma, Galleria Nazionale. Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività culturali - Complesso Monumentale della Pilotta-Galleria Nazionale.
Il Coronavirus è una cosa seria, ma, come scriveva Camus ne La Peste, bisogna restare, accettare lo scandalo, camminare nelle tenebre e tentare di fare il bene. Dobbiamo convivere con questa cosa tenebrosa, che non capiamo

Introduce le riflessioni sulla prossemica con un altro riferimento iconografico: il Capriccio di Canaletto della Galleria Nazionale di Parma.
La prossemica è una materia che mi ha sempre appassionato. Il corpo non è un oggetto per abitare l’architettura o meno. La nostra fisicità, animalità, o umanità – chiamiamola così - è fatta per costruire delle relazioni sintattiche complesse. C’è un linguaggio del corpo con il suo ambiente, e per dimostrare questo mi son divertito ad analizzare il Capriccio di Canaletto, in cui attribuisco alle persone che si muovono accanto al Canale, il valore identitario, non all’architettura. Le persone abitano lo spazio, e ci fanno capire che siamo a Venezia: non sono le architetture a definire il luogo, ma le persone. Le persone sono qualcosa di più che non semplici abitanti dell’architettura, ma spesso sono la garanzia dell’autenticità del luogo. Ho voluto dire questo, giusto o sbagliato che sia.

Le persone sono qualcosa di più che non semplici abitanti dell’architettura, ma spesso sono la garanzia dell’autenticità del luogo

Suggerisce di non iniziare a fare riflessioni progettuali partendo dal distanziamento, perché è un comportamento innaturale.
Progettare partendo dal distanziamento può portare ad esiti pericolosi. Non siamo pronti, dobbiamo ancora digerire quello che ci è successo, prima di avanzare delle proposte. Siccome siamo angosciati, ci precipitiamo a schematizzare e destrutturare la città, ma dobbiamo tener presente che distanziamento è innaturale, è un artificio da non acquisire. Trovo aggressivo e vanitoso progettare partendo dal distanziamento. Cosa può significare? Basta andare al cinema, per rendersene conto, come fai a goderti un’esperienza in quelle condizioni? Il distanziamento, che ha un carattere militare, è necessario ora, perché sennò ci contagiamo, e va quindi rispettato; diverso è scambiare l’eccezione con la regola. Bisogna stare molto attenti, perché si è detto e parlato molto a proposito di ricostruire la città, la casa e gli ambienti in questo periodo, e devo dire che si sono dette un sacco di “baggianate”.

Siccome siamo angosciati, ci precipitiamo a schematizzare e destrutturare la città, ma dobbiamo tener presente che distanziamento è innaturale, è un artificio da non acquisire.

Come può intervenire l’architettura quindi, dopo una situazione che lei immagina possa configurarsi come una “raffica di vento”?
Dobbiamo metabolizzare, non siamo pronti a un’immediata risposta, e io su questo mi espongo. Bisogna frenare. L’architetto crede di avere la medicina universale, la panacea. Io ho preferito sposare la linea della “modestia”. Facendo anche una rivista di architettura, mi sono domandato, perché non sviluppare le buone cose proposte in questi anni e non attuate? Faccio un esempio: nel quartiere City life, a Milano, la grande torre “storta” adesso è vuota. Prima ci lavoravano ottocento persone, ora sono in venti. Gli altri lavorano a distanza. Ma nessuno ha riflettuto su che cosa significhi davvero: il lavoro a distanza funziona se io posso controllarlo nei minimi dettagli, e ora questo si può fare. Allora non c’è solo la desolazione di una torre vuota, che si spera abbia termine, ma c’è anche il pericolo che il lavoro a distanza diventi un fatto di controllo totalitario.
Io sono d’accordo con la tesi che propone la professoressa Shoshana Zuboff, quando parla di “Capitalismo della sorveglianza”. Condivido l’idea di raffreddare gli entusiasmi per il lavoro a distanza. Lo vedo anche adesso all’università, io ho a cha fare con persone che insegano, non posso dire che siano entusiaste di questa modalità di lavoro.

C’è anche il pericolo che il lavoro a distanza diventi un fatto di controllo totalitario
Pierluigi Nicolin, architetto, professore e direttore della rivista quadrimestrale Lotus dal 1978. Photo Courtesy Pierluigi Nicolin.

Spera quindi che non si arrivi a usare l’architettura come pretesto per un esercizio formale, ma incoraggia a lavorare per rendere interessanti le cose ordinarie?
Ne sono convinto. La futura speranza progettuale dovrà concentrarsi sui confini della casa e ritornare a pensare ai punti di incontro, per le feste, per i concerti, certo ora impensabili, ma che torneremo a popolare. Abbiamo un sacco di cose da fare, non occorre abbozzare un’utopia improvvisata!

La futura speranza progettuale dovrà concentrarsi sui confini della casa e ritornare a pensare ai punti di incontro, per le feste, per i concerti, certo ora impensabili, ma che torneremo a popolare. Abbiamo un sacco di cose da fare, non occorre abbozzare un’utopia improvvisata!

Propone delle strategie o dei “farmaci” progettuali, tra cui il concetto “dell’innesto”.
Il punto è di non pensare di fare un esercizio in caduta libera. Innesto significa che hai a che fare con qualcosa su cui ti devi appoggiare, che devi lavorare su una pianta che hai già e che non puoi non considerare. Dobbiamo coltivare quello che ci è prossimo.
L’architettura deve sviluppare al massimo il concetto di leggerezza e flessibilità, che può aiutare a rispondere al cambio di destinazione dello spazio. Non è un problema tecnologico, è un problema antropologico.

Altri possibili “farmaci”, secondo lei, possono essere gli interventi sulla mobilità e sulla riorganizzazione degli orari degli spostamenti.
Sono le cose più importanti da cui partire. Abbiamo un modello di mediocrità pazzesco, se penso alle piste ciclabili costruite in maniera totalmente sconsiderata. Ha ragione il sociologo Richard Sennet che dice che “La città non esiste se non la attraversi”, sono del tutto affascinato dal concetto dell’attraversabilità. Gli interventi sulla mobilità avrebbero una funzione rigenerativa per la città. Anche per quanto riguarda il piano dei tempi, purtroppo se ne parla in una maniera miserabile, come il consiglio di evitare le ore di punta: è un funzionalismo “approssimativo”, e legato a un’urgenza. Mi piacerebbe invece aprire il discorso recuperando una visione a lungo termine.

Nonostante le difficoltà, lei riconosce agli italiani una grande capacità di “rimbalzare”.
La resilienza è una virtù degli italiani; viene dal verbo latino resilìre, cioè rimbalzare. Gli antichi intendevano che quando uno cade in mare da una barca, riesce a tornare su: resilio significa risalire. Siamo caduti? Risaliremo.

Nel libro ci sono numerosi riferimenti letterari a scenari distopici, come il celebre passaggio nei Promessi Sposi in cui Renzo torna al paese natio, devastato dalla guerra e dalla peste.
Ho raccolto degli esempi; la letteratura offre numerosi casi di narrazioni distopiche, di paesi deserti, distrutti e abbandonati dopo le epidemie. Ci siamo anche avvicinati molto allo scenario di romanzi distopici, come "Fahrenheit 451" di Bradbury e "1984" di Orwell.

Come diceva Foucault, le utopie consolano. Dopo le grandi epidemie sono nate opere che raccontavano la fuga come risposta alla crisi, come il Decameron. Anche ora, si sentono queste proposte di scappare nei borghi, e torna fuori il tema del rifugio

C’è anche un altro tipo di reazione alle situazioni di crisi, come la tendenza all’isolamento, all’insularismo.
Come diceva Foucault, le utopie consolano. Dopo le grandi epidemie di peste sono nate opere che raccontavano la fuga come risposta alla crisi, come il Decameron. Anche ora, si sentono queste proposte di scappare nei borghi, e torna fuori il tema del rifugio. La più nobile e più sofferta utopia mancata che porto ad esempio, è quella proposta da Jonathan Franzen, nel suo bellissimo libro Le correzioni. Franzen critica la società contemporanea e giunge alla conclusione che tanto vale che ognuno si prenda le sue responsabilità di fare bene le cose che sta facendo e di occuparsi dell’ambiente in cui si trova. Franzen ricalca la posizione di Voltaire, quando Candide afferma che bisogna coltivare il proprio giardino. Questo atteggiamento non risolve i problemi. Se vuoi preservare il tuo orticello, se rinunci a cambiare la situazione, torni a essere un localista, sei destinato a erigere altre barriere.
È meglio non puntare troppo su queste piccole utopie, come quella di Franzen, in un’epoca di pandemie e crisi climatiche, dove è difficile immaginare la salvezza solo per alcuni.

Pierluigi Nicolin: “Progetteremo come ricontattarci, non come distanziarci”
Pierluigi Nicolin, Architettura in quarantena, 2020, Skira.

Nel libretto, avverte la mancanza di una spinta progettuale o l’appello a una rinascita morale. Lo pensa ancora, oggi?
Penso che siamo in una fase un po’ “deformata”, dobbiamo ancora chiarirci le idee. Per ora siamo esageratamente concentrati sul nostro tempo libero, ma nessuno parla su come si dovrebbe lavorare, o se fare dei figli o non farli; c’è invece questa enfasi sul ballo, il calcio, la musica e i musei. Sembra che tutti andiamo al museo, ma le problematiche sono più profonde.
Io non ho un’idea migliore se non quella di rimboccarci le maniche e lavorare sulla città che c’è già, che non è niente male, e cerchiamo di fare in modo di non trasformare immediatamente e senza mediazioni il progetto architettonico in business. Non partiamo da zero, e non concentriamoci solo sui musei e il concerto alla Scala: la nostra città è il nostro modo di vivere, questo penso io.

La nostra città è il nostro modo di vivere, questo penso io

Nel 2021, il tema della Biennale di architettura sarà “Come vivremo assieme”, che cosa si aspetta?
Non è così sbagliato come punto da cui partire, se poi non diventa quel sociologismo d’accatto. I titoli delle Biennali sono un po’ pretestuosi, io preferisco ragionare su “come ricontattarci”, vorrei che riflettessimo su come ristabilire il contatto.

Vorrei che riflettessimo su come ristabilire il contatto

In questi giorni, sente più un atteggiamento di fuga o di resilienza?Questo è un periodo brutto, la gente è scoraggiata. Il sentimento che mi pare più nobile che sento circolare, è quello di provare a mettercela tutta per non essere travolti. Ci immaginavano uno scenario diverso, passeggero, episodico. Sarà così, una parentesi? Non lo so, in un certo senso lo sarà, secondo me, ma che tipo di parentesi, non saprei dire. Evidentemente non è ancora il momento delle grandi idee.

Mi ha sorpreso il risvolto poetico che dà a questa considerazione, citando le parole di Lucio Dalla, che erano poi parole cariche di speranza...
Dalla era un genio! Oggi viviamo in una situazione pesante, da cui si spera di uscire, è qualcosa di simile al clima che Dalla descriveva durante gli anni di piombo: “ Si esce poco la sera, compreso quando è festa”. Vedremo.

Immagine d'apertura: illustrazione di Paolo Metaldi, Eterotopia, 2020.
© Courtesy Paolo Metaldi

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