Architettura immateriale e la condizione del progettista contemporaneo nel libro di Andreas Rumpfhuber

Pubblicata dalla casa editrice spagnola DPR Barcelona, una raccolta di saggi analizza le conseguenze politiche e sociali di progetti radicali.

Hans Hollein, Mobile Office, 1969

“Oggi il letto è il luogo che meglio rappresenta le nuove forme di conoscenza”. Domenica mattina, ore 11 circa, disteso sul letto ho appena iniziato il terzo capitolo di Into the great wide open, un libro edito dall’architetto e ricercatore austriaco Andreas Rumpfhuber e pubblicato da DPR Barcelona. Accanto a me ho l’immancabile taccuino e decine di fogli sparsi, perchè il volume che mi ha mandato la casa editrice l’ho perso – come al solito – in aereo.

“Il letto non è più un posto dove possiamo sdraiarci pigramente per riposare dal lavoro o addirittura evitarlo. Oggi il letto è un luogo per il lavoro intellettuale e creativo”. Tra terrore ed esaltazione mi rendo conto che, anche se pigramente, sto a tutti gli effetti lavorando sotto le lenzuola. Sto lavorando di domenica mattina.

Scritto per metà da Rumpfhuber e per il resto da altri sei ricercatori affini e amici, Into the great wide open è una raccolta di saggi che esplora i confini labili tra lavoro, opera e architettura.

L’architetto austriaco non parla solo di architettura immateriale ed effimera, ma della situazione degli architetti contemporanei. Lo fa analizzando progetti radicali e sperimentali, di architetti come Cedric Price o Hans Hollein e applicando ai progetti riflessioni dei filosofi “autonomi” italiani, come Mario Tronti e Maurizio Lazzarato.

Into the great wide open è una raccolta di saggi che esplora i confini labili tra lavoro, opera e architettura

Gli altri saggi presentati – Jon Goodbun, Dubravka Sekulič, Maria S. Giudici, Christian Teckert, Elke Krasny, Matthias Moroder – invece che completare il ragionamento dell’autore ne seguono l’approccio: le analisi degli autori coinvolti non si interessano all’aspetto estetico o formale dell’architettura ma alle sue conseguenze politiche e sociali.

Reyner Banham & François Dallegret, A home is not a house. Disegno pubblicato in origine sulla rivista Art in America nel 1965
In apertura: Hans Hollein, Mobile Office, 1969. Qui sopra: Reyner Banham & François Dallegret, A home is not a house. Disegno pubblicato in origine sulla rivista Art in America nel 1965

Ma che forma ha l’architettura immateriale?
L’architettura immateriale non ha muri o partizioni, non definisce un dentro e un fuori, ma è composta piuttosto da aree fluide in cui funzioni ed elementi architettonici sono più densi o rarefatti, come ad esempio i laboratori Kanagawa Institute of Technology progettati da junya.ishigami+associates.

L’architettura immateriale cambia continuamente layout e programma, funzionando come un sistema cibernetico iperconnesso e configurabile dagli utenti stessi. È “un centro nevralgico di traffico, un raccordo senza confini, [...] una traccia immateriale che funziona più come paesaggio che come edificio”, come viene descritto il celeberrimo Fun Palace di Cedric Price.

Il problema degli architetti contemporanei non è più come progettare il mondo esterno ma come progettare se stessi

La performance 2:20 Minute, dell’allora 34enne architetto austriaco, è forse il caso studio migliore per raccontare la nuova situazione dell’architetto contemporaneo, allo stesso tempo imprenditore, manager e operaio, che non si occupa solo della costruzione di edifici ma di comunicazione e cultura.

All’interno del gonfiabile portatile Hollein usa ancora squadre e matite – nel 1969 portatili e smartphone erano difficili da immaginare – ma rappresenta in modo ineccepibile il lavoro nomade e pervasivo dell’architetto, il cui problema “non è più come progettare il mondo esterno – dato che non esiste più un esterno da pianificare – ma come progettare se stessi e come affrontare il modo in cui il mondo li ridisegna costantemente.”

Sebbene analizzano progetti teorici e d’avanguardia, i saggi presentati in Into the great wide open riescono a parlare di condizioni concrete. Leggendo il libro, ogni architetto, designer o creative worker può riconoscersi nelle sue analisi. L’autore stesso mette in evidenza con onestà che le sue riflessioni e lo sviluppo del libro sono stati fortemente influenzati dalle sue vicende personali. In Rumpfhuber è possibile ritrovare lo stesso coraggio degli scritti sulla depressione del teorico culturale Mark Fisher, che ha raccontato la sua esperienza personale in modo lucido e toccante per completare la sua analisi politica.

L'azione progettuale è uno stimolo per una rivoluzione culturale che ha tempi molto lunghi.

Infine, Into the great wide open dimostra la lungimiranza dei progetti di certe avanguardie. Le riflessioni presentate risultano contemporanee senza inseguire l’attualità. Il progetto è uno strumento per immaginare e sperimentare società e città future, per visualizzarle e renderle tangibili. L'azione progettuale è uno stimolo per una rivoluzione culturale che ha dei tempi molto lunghi. Mai come oggi sono necessarie sguardi e indagini che guardano a 100, 1.000, 10.000 anni e che superano la condizione precaria di un presente estremo.

Titolo:
Into the Great Wide Open
A cura di:
Andreas Rumpfhuber
Testi di:
Andreas Rumpfhuber, Francesco Marullo, Maria Giudici, Jon Goodbun, Elke Krasny, Matthias Moroder, Dubravka Sekulic, Christian Teckert, __ [Blankspace]
Traduzioni:
Aileen Derieg
Revisione:
Daniel Lacasta Fitzsimmons
Progetto grafico:
Astrid Seme Studio
Dimensioni:
16 x 24 cm
ISBN:
978-84-947523-1-5
Casa editirice:
dpr-barcelona
Anno:
2018

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