New York. Quale sarà il futuro del Chelsea Hotel?

Le sue porte battute all’asta e la chiusura del ristorante tornano a fare parlare del destino del leggendario albergo, sospeso tra declino e speculazione edilizia.

Chelsea Hotel, photo Veronica Santi

L’insegna al neon del Chelsea Hotel è spenta. Dal 2011, la facciata color rosso velluto, con i suoi balconcini a motivi floreali, le colonne bianche e i tetti spioventi di ardesia, è coperta dalle impalcature. L’entrata al 222 della 23esima strada è sbarrata, le 250 unità sigillate all’esterno con del cellophane, l’ascensore foderato da un panno grigio metallico. Il rooftop, un tempo ricco di alberi e fiori, trasformato in un magazzino dove vengono ammassati materiali industriali. Nel silenzio dei corridoi spogli, la rampa di scale in ferro battuto che sale è forse l’unico pezzo di storia visibile rimasto intatto, colonna portante dell’edificio. 

Dopo gli anni d’oro di Stanley Bard, anima romantica e istintiva, che eredita la direzione dell’hotel dal padre e la mantiene dagli anni Settanta in poi per più di 40 anni, selezionando personalmente i residenti, scegliendo per ognuno le tariffa, dando asilo ad artisti squattrinati che non di rado pagano l’affitto con opere d’arte, sette anni fa l’hotel è acquistato dal costruttore Joseph Chetrit per 81 milioni di dollari e poi chiuso repentinamente, con l’obiettivo di ristrutturarlo e trasformarlo in un hotel extra lusso. “Sapevamo che l’edificio era in vendita perché lo avevamo letto su Internet, ma nessuno ci disse cosa stava accadendo e chi avesse preso la proprietà”, mi racconta Colleen Weinstein, moglie del fotografo Arthur Weinstein, attualmente residente con la figlia al Chelsea Hotel in un appartamento già rinnovato. “Poi, da un giorno all’altro ci siamo ritrovati nuove persone che lavoravano alla reception, odiose e cattive. Chelsea Dynasty era il nome della compagnia alla quale pagare l’affitto. Hanno portato via tutte le opere d’arte dalle pareti delle scale, nei corridoi, nella lobby, sigillato con dei lucchetti enormi le stanze vuote. Hanno imbiancato le porte a coprirne la storia e poi le hanno sostituite e buttate via”.

A seguito di azioni legali dei residenti e non solo, Joseph Chetrit ha ceduto poi l’edificio per 150 milioni e nel 2016 un gruppo di albergatori – Richard Born e Ira Drukier del BD Hotels, Sean MacPherson del Jane Hotel e Bowery Hotel – l’ha acquistato per 250 milioni di dollari insieme a El Quijote, il ristorante di cucina spagnola aperto nel 1930 per sopperire alla mancanza di cucine del Chelsea Hotel, interamente decorato in stile kitsch con le storie di Don Chisciotte, punto di ritrovo per la comunità residente (“The Chelsea was my home and the El Quijote my bar”, scrive Patti Smith).    

Apparentemente, il declino del Chelsea Hotel è sembrato inarrestabile. Eppure, entrandoci, una vibrazione al suo interno continua a farsi sentire. Ci vive una cinquantina di persone, molti di loro sono artisti. Tony Notarberardino, per esempio, è fotografo e regista, lo incontro più volte al bancone de El Quijote per un Manhattan Cocktail. Tony vive al Chelsea da più di 25 anni ed è sempre riuscito a mantenere intatto il proprio appartamento al sesto piano, coloratissimo, caleidoscopico, col camino ottocentesco, un Buddha gigante e le decorazioni dell’artista australiana Vali Myers. Il suo progetto “Chelsea Hotel Portraits” è un’elegia dell’umanità, raccontata attraverso ritratti in bianco e nero scattati dal 1997 al 2014, che documentano le straordinarie e trasversali possibilità di esistenza all’interno dell’edificio. 

Mi rivolgo a Gabriel Marchisio, un cartomante di professione amico di Tony, per essere accompagnata all’appartamento dei Weinstein. “Una volta mi hai detto che questo posto è un portale”, gli ricordo a sedere sul divano di Colleen. “Bubububuu” mi risponde lui. “Non è un’opinione soggettiva, non è suggestione. È un fatto. Qui c’è un’energia creativa, indipendente, organica, biologica. E non è senza glutine!” Ride. Ridiamo. Poi, sottovoce, aggiunge: “Questo posto è vivo”. “Ed è donna, una grande dama anziana”, sentenzia Colleen. 

Costruito nel 1885 in stile gotico vittoriano dall’architetto Phiip Huber, un seguace delle idee proto-socialiste del filosofo francese Charles Fourier, l’edificio è stato concepito come un’utopia urbana, la prima cooperativa di appartamenti a basso costo di New York, una sorta di comune nella quale dovevano abitare chi aveva costruito l’edificio (elettricisti, operai edili, interior designer e idraulici) insieme a scrittori, musicisti e attori. L’ultimo piano, esposto alla luce del sole, è dedicato a 15 studi di pittori, mentre le stanze che si affacciano sull’interno, quelle cioè più silenziose, sono riservate agli scrittori. I dipinti sono appesi nelle sale comuni e i corridoi e i soffitti decorati con motivi naturali. A quel tempo, è il palazzo più alto di New York. 

Nel 1905 il sogno socialista di Huber va però in bancarotta e l’edificio è convertito in un hotel che, come un magnete, attira a sé le menti più brillanti e maledette del XX secolo. Ogni angolo ricorda un aneddoto, ogni stanza diventa un microcosmo. Mark Twain e Oscar Wilde ci abitano prima della Guerra. Jack Kerouac nel 1951, scrive qui Sulla strada. Arthur Miller, dopo il divorzio con Marilyn Monroe, si trasferisce nella stanza numero 614 per sei anni. Bob Dylan abita nella numero 211, sposa la vicina di stanza e incide la canzone Sara. Leonard Cohen incontra in ascensore Janis Joplin e poi le dedica Chelsea Hotel #2. Arthur C. Clarke scrive 2001: Odissea nello spazio, William S. Burroughs The Naked Lunch, mentre nel 1966 Andy Warhol vi gira il film Chelsea Girl. Nancy Spungen, fidanzata con Sid Vicious, viene trovata uccisa con una coltellata al petto nella stanza numero 100. Jimi Hendrix, Jim Morrison e Janis Joplin organizzano qui i loro festini. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.  

L’edificio è stato concepito come un’utopia urbana, la prima cooperativa di appartamenti a basso costo di New York, una sorta di comune nella quale dovevano abitare chi aveva costruito l’edificio (elettricisti, operai edili, interior designer e idraulici) insieme a scrittori, musicisti e attori

Negli anni, un alone di mitologia ha consumato di fama il Chelsea Hotel, rendendolo infine preda della speculazione edilizia americana. Un copione che si ripete? In molti pensano che l’edificio diventerà un’attrazione turistica nonostante il tentativo della nuova proprietà di renderlo nuovamente agibile senza stravolgerne la struttura, con camere di hotel e appartamenti. Secondo Marchisio, il quale, come già accaduto nel 2011 prima che l’albergo chiudesse, ha letto i suoi tarocchi a un gruppo di residenti e amici, il Chelsea continua a non avere vita facile: “Tra i proprietari non c’è conflitto, ci sono però forze di ogni tipo che si oppongono alla sua riapertura e interessi monetari che ne ostacolano la salvaguardia e memoria storica. Alla fine tornerà a essere un luogo per i creativi seppur diverso dal passato. E ci saranno due ristoranti”.

Intanto, due date recenti hanno segnato un’altra tappa di questa storia. Il 30 marzo El Quijote ha chiuso, si legge, per motivi di ristrutturazione interna. Dicono che verrà riaperto in sei mesi. Moltissimi newyorkesi, scettici sulle sue sorti, si sono riversati in pellegrinaggio nel ristorante, nonostante le ore di attesa per avere un tavolo. Giovedì 12 aprile, invece, la Guernsey ha messo all’asta 55 porte originali, le stesse che furono verniciate dagli operai di Joseph Chetrit, poi buttate e recuperate per strada da Jim Georgiou, un barbone un tempo residente al Chelsea. Il prezzo più alto, 100.000 dollari, è andato alla porta della camera dove risiedeva Bob Dylan, seguita da quelle di Janis Joplin, Leonard Cohen, Joni Mitchell per 85.000, mentre i più bassi, 1.000/1.300 dollari, sono andati a quelle senza un riferimento a un personaggio famoso. Il ricavato delle vendite andrà a City Harvest, l’organizzazione no-profit che recupera il cibo dai ristoranti e catene alimentari per poi ridistribuirlo a chi ne ha bisogno. Per una settimana, prima dell’asta, le porte sono state messe coralmente in mostra, in piedi, ancorate con fili metallici al soffitto della Ricca Maresca Gallery che ha ospitato l’evento. 

Simbolo di comunicazione o divisione, aperte o sbarrate, sotto le quali solitamente nessuno si ferma, il fascino di ognuna, qui, è irresistibile. Sono presenze vestite di bianco, pronte a scivolare via, verso nuove strade. 

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