Contro lo spaziocidio

Allo studio AAU Anastas il progetto dell’Edward Said National Conservatory of Music ha offerto l’opportunità di confrontarsi con la questione dello spazio pubblico e di riconsiderarne il valore.

Contro lo spaziocidio


Questo articolo è stato pubblicato su Domus 970, giugno 2013
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In Occidente, la nozione di spazio pubblico è spesso associata a quella di interesse collettivo, di bene comune. In altri contesti culturali, come nel mondo arabo contemporaneo, invece, lo spazio pubblico è guardato con sospetto. A seguito di anni di dominazione e colonizzazione europea, la sfera pubblica non ha mai rappresentato l’interesse collettivo ma, al contrario, è stata l’espressione di potere di un’élite bianca, violenta e sfruttatrice.

Contro lo spaziocidio
In apertura e sopra: AAU Anastas, Conservatorio nazionale Edward Said, Beit Sahour, Betlemme. Il complesso commerciale realizzato davanti al conservatorio è nato su proposta dell’architetto Elias Anastas, che ha fatto dono al Comune di Beit Sahour del progetto di massima. È costituito da due corpi di fabbrica lineari, affacciati su una strada pedonale, allineata alla corte aperta dell’istituto musicale. Photo Antonio Ottomanelli

È in nome del pubblico che il regime si appropria di ciò che le persone hanno in comune: l’espropriazione delle terre è forse la manifestazione più evidente di come questa nozione non coincida necessariamente con l’interesse del popolo. Le autorità statali sono ossessionate dal controllo e dalla disciplina dei luoghi collettivi, finendo per distruggere il loro vero carattere di spazi per incontri casuali e attività non pianificate.

Ciò che fa più paura alle autorità è la possibilità di trasformare una piazza, un boulevard o una banale rotatoria in uno spazio politico, in cui il popolo possa riappropriarsi di una sovranità, disattivando la macchina statale.

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AAU Anastas, Conservatorio nazionale Edward Said, Beit Sahour, Betlemme L’ala sud del conservatorio con il sistema di brise-soleil a lamelle. Il rivestimento esterno in pietra costituisce un elemento di continuità urbana. Photo Antonio Ottomanelli

Purtroppo, molti dei regimi che nel mondo arabo sono seguiti al colonialismo europeo hanno continuato a soffocare l’esistenza di spazi comuni, facendoli coincidere con la faccia burocratica e repressiva del potere. L’ondata neo-liberale che ha invaso anche il mondo arabo dagli anni Novanta ha finito per smantellare ciò che di pubblico ancora esisteva.

Tuttavia, le rivolte arabe iniziate nel 2010 hanno aperto nuove prospettive politiche: esse possono essere interpretate fondamentalmente anche come la volontà di riconquista del ‘comune’ nel mondo arabo. Le manifestazioni dell’Avenue Habib Bourguiba a Tunisi, le occupazioni della rotonda di piazza Tahrir al Cairo e di Dawar al-lu’lu’ a Manama sono solo alcuni momenti di reinvenzione e riappropriazione dello spazio collettivo.

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AAU Anastas, Conservatorio nazionale Edward Said, Beit Sahour, Betlemme. La pietra locale Sour Ma’in utilizzata per le facciate è stata tagliata a macchina; i blocchi sono stati accostati con giunti quasi invisibili, a formare un muro monolitico. La tipologia del conservatorio riprende quella delle case palestinesi. La tradizionale mashrabiya araba è stata reinterpretata nelle grate a lame orizzontali, di diverse gradazioni di blu per rendere vibranti i fronti. Photo Antonio Ottomanelli

Anche il progetto del Conservatorio nazionale a Beit Sahour è stato soprattutto il tentativo di fare leva sul programma di un edificio per la musica al fine di realizzare un luogo pubblico. Questa operazione è condotta in maniera abbastanza originale, cercando di manipolare e riutilizzare conformazioni urbane già esistenti nelle città arabe.

L’hosh—termine che identifica un raggruppamento di case intorno a un vuoto, diffuso soprattutto nei contesti rurali—è storicamente uno spazio che potremmo definire “semi-pubblico”, formato dalla giustapposizione di corpi di fabbrica atti a creare una sorta di luogo aperto interno: uno spazio introverso e protetto, ma, allo stesso tempo, aperto a un uso collettivo.

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AAU Anastas, Conservatorio nazionale Edward Said, Beit Sahour, Betlemme. La sala per concerti è concepita come spazio multifunzionale. Tutti gli arredi sono stati realizzati da artigiani locali su disegno degli architetti. Phot Antonio Ottomanelli

Nel conservatorio, la disposizione dei volumi è stata organizzata intorno a un patio centrale di forma rettangolare. Un lato di questo nuovo hosh rimane volutamente spalancato verso la città: una variazione alla tipologia classica, per dare più enfasi al suo carattere d’istituzione pubblica moderna.

Questa grande apertura è sottolineata dalla realizzazione, da parte della municipalità e su suggerimento degli architetti, di una strada pedonale commerciale, un souk all’aperto, un’onda di spazio pubblico che si fa largo tra il denso centro cittadino. L’unità dei diversi volumi è data dall’uso della pietra locale, un po’ come succede in tutte le città palestinesi, nel rispetto di un vecchio regolamento ottomano che imponeva l’uso della pietra come rivestimento.

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AAU Anastas, Conservatorio nazionale Edward Said, Beit Sahour, Betlemme. Il patio centrale è l’elemento chiave del progetto, fungendo allo stesso tempo da piazza urbana aperta verso la città e da spazio per la regolazione del microclima dell’edificio. È una citazione dell’hosh, la corte semiprivata su cui si affacciano le case di un gruppo familiare, diffusa nei villaggi palestinesi. Photo Antonio Ottomanelli

Questa scelta costruttiva costituisce oggi la qualità maggiore dello spazio urbano palestinese: il rivestimento lapideo produce un’immagine unitaria, che bene si lega ai colori e alla consistenza del paesaggio circostante. A rompere con un uso tradizionale dei materiali nel conservatorio è l’inserimento di grandi vetrate, che accentuano la dimensione pubblica dell’edificio: vedere direttamente dalla strada, attraverso le ampie finestre, gli studenti suonare offre uno sguardo sulle attività della scuola, mentre, nelle calde serate estive, il patio centrale si converte facilmente in una sala da musica all’aperto.

Il cantiere è stato trasformato in un luogo di creazione collettiva: artigiani, muratori e impresa costruttrice hanno lavorato insieme in situ per trovare soluzioni che potessero essere prodotte localmente. Un chiaro esempio sono le semplici poltroncine, le sedie e i tavoli realizzati da un artigiano, la cui bottega si trova in uno dei campi profughi della città.

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AAU Anastas, Conservatorio nazionale Edward Said, Beit Sahour, Betlemme. La pietra locale Sour Ma’in utilizzata per le facciate è stata tagliata a macchina; i blocchi sono stati accostati con giunti quasi invisibili, a formare un muro monolitico. La tipologia del conservatorio riprende quella delle case palestinesi. La tradizionale mashrabiya araba è stata reinterpretata nelle grate a lame orizzontali, di diverse gradazioni di blu per rendere vibranti i fronti. Photo Antonio Ottomanelli

Ho incontrato l’architetto Elias Anastas un paio di volte per farmi raccontare l’origine e l’evoluzione del progetto. Elias fa parte di una nuova generazione di talenti palestinesi che sanno muoversi a loro agio tra l’iper-localismo della terra di origine e i luoghi della diaspora palestinese. Trovo queste figure particolarmente interessanti, perché non hanno scelto di seguire né mode internazionaliste né falsi localismi: sanno mettere in tensione mondi diversi senza appiattirli, senza banalizzarli facendone una caricatura per un più facile consumo globale.

Al contrario: complicando e problematizzando connessioni e differenze, sanno approdare a espressioni originali. Edward Said, a cui il conservatorio è dedicato, è stato tra i pochi intellettuali in grado di coniugare un appassionato impegno politico per la liberazione del popolo palestinese con una produzione intellettuale rigorosa, non sottomessa a ideologie politiche, ma intrinsecamente politica.

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Cava di estrazione dell'azienda Mourra a Betlemme situata all’ingresso nord di Betlemme, vicino al campo rifugiati di Dheisheh. Photo Antonio Ottomanelli
Said è stato anche fra i pochi ad affermare con forza la necessità di non far soccombere l’arte, la musica e la letteratura di fronte alla brutale repressione coloniale e militare. Così, a dispetto di un mai interrotto ‘spaziocidio’—termine coniato dal sociologo palestinese Sari Hanafi per descrivere la volontaria e pianificata distruzione ed eliminazione dello spazio in cui una popolazione vive, e che trova la sua ultima manifestazione nella costruzione di un muro di cemento alto otto metri che circonda completamente Betlemme—il progetto del conservatorio tenta di ricostruire con pazienza, ‘pessi-ottimismo’ e lungimiranza un’idea di spazio pubblico contemporaneo.  

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