Aylesbury Estate

Condensando in 8 minuti la storia, il fosco presente e l’incerto futuro di quello che una volta era il più grande e ambizioso progetto di residenza sociale d’Europa, Joe Gilbert applica una narrazione fotografica essenziale a un luogo derelitto, per fargli riacquistare la dignità che merita.

“Public housing, not private profit”. Esordisce così, con una scritta, scarabocchiata a mano, sul muro di un malconcio edificio, il nuovo documentario di Joe Gilbert. Ci troviamo ad Aylesbury, estrema periferia sud-est di Londra, immenso e ambizioso progetto britannico di edilizia sociale realizzato negli anni Settanta e in declino già dagli Ottanta. “Siamo di fronte all’incarnazione”, spiega il filmmaker britannico, “del totale fallimento di una certa utopia abitativa sociale”.
Proseguendo nella sua passione per l’architettura brutalista, Gilbert ha da poco ultimato un raffinato corto che, in 8 minuti, condensa la storia, il fosco presente e l’incerto futuro, di quello che una volta era il più grande e ambizioso progetto di residenza sociale d’Europa: 2.740 alloggi a basso costo per 7.500 residenti. Dopo avere magistralmente narrato le alterne fortune del Barbican, quintessenza del brutalismo londinese e oggi sede di un prestigioso centro d’arte contemporanea, e dei Robin Hood Gardens, controverso progetto di Alison and Peter Smithson, Gilbert punta ora il suo obiettivo su Aylesbury Estate per richiamare l’attenzione sull’attuale problema della cronica carenza di alloggi nel Regno Unito.

 

Con 2.740 alloggi per 7.500 residenti, Aylesbury Estate è uno dei più imponenti e ambiziosi interventi di edilizia sociale degli ultimi decenni in Gran Bretagna. Qual è, in breve, la storia di questo “super-condominio” realizzato tra il 1963 e il 1977? E quale il suo stato attuale?

Joe Gilbert: L’edificio è stato in primo luogo realizzato per ospitare i ceti più poveri della popolazione di Londra. Edifici brutalisti come questo erano pensati per offrire un modo di vivere moderno, utopico e radicalmente diverso dai bassifondi costruiti prima della guerra. Il vero declino è cominciato comunque nel 1980. All’epoca c’era poca attenzione e considerazione nei confronti del mix d’inquilini e l’impatto che questo avrebbe avuto sulle comunità che vi abitavano. Il governo conservatore spingeva per un passaggio dagli alloggi sociali alla proprietà privata. Le proprietà lasciate non sono però state adeguatamente mantenute. Criminalità e bande di delinquenti sono state lasciate prosperare. Nel 2005, il Consiglio di Southwark ha deciso che non valeva la pena di spendere 350 milioni di sterline per rinnovare l’edificio e ha avviato un processo per svendere la terra agli immobiliaristi privati. Oggi, solo alcune parti dell’edificio sono state demolite e sostituite. A settembre, il governo ha bloccato ulteriormente il processo di demolizione e ha proceduto allo sfratto degli inquilini in affitto, in quanto non venivano risarciti con una quantità di denaro adeguata per l’esproprio delle loro proprietà.

 

Perché un documentario ora su Aylesbury Estate? Su quali aspetti si vuole richiamare l’attenzione?

Joe Gilbert: È il momento giusto per fare questo documentario perché proprio ora il tema dell’alloggio è un problema enorme nel Regno Unito, in particolare a Londra, che soffre di una cronica carenza di alloggi a prezzi accessibili per i comuni lavoratori, costretti ad abitare fuori dalla metropoli. Pochissimi si stanno muovendo per contrastare questo problema. Con il mio film, voglio sottolineare come questo modo utopico di abitare sia completamente fallito. L’eredità dell’edilizia sociale sta per essere distrutta. Oggi, a governare è il solo denaro.

 

Il tuo film si apre con il primo discorso ufficiale di Tony Blair che nomina Aylesbury Estate come esempio della volontà del Governo di farsi carico anche dei ceti più disagiati della popolazione. Cosa è successo poi?

Joe Gilbert: Le parole di Blair erano essenzialmente a vuoto. Il denaro investito nell’edificio, pari a 400 milioni di sterline, serviva a trovare un accordo per trasferire la proprietà a una cooperativa edilizia. In seguito a una votazione, il 73% degli inquilini ha respinto l’offerta.

 

Hai scelto una tecnica molto “fotografica” in cui tutto si muove – avanti e indietro – attorno all’edificio, che resta immobile nella sua maestosa “bellezza senza tempo”; anche la voce di commento resta sempre fuori campo e l’edificio e i suoi utilizzatori restano gli unici protagonisti. Perché?

Joe Gilbert: I miei film sono formalmente molto semplici. Sono un puro osservatore e visitatore di questi luoghi. Per me, la composizione resta la cosa più importante. Prendo spunto molto più dalla fotografia. Il mio obiettivo è illuminare questi luoghi, per fare riacquistare loro dignità e rispetto. Sto cercando di dare voce a queste comunità per evidenziare come alcune fasce della nostra società stiano diventando sempre più divise e distanti. Le voci degli intervistati – come quella del critico di architettura Tom Dychoff o del primo ministro Tony Blair – restano al di fuori delle riprese, perché voglio che l’attenzione degli spettatori si concentri esclusivamente sugli edifici stessi. In questo modo, lascio al pubblico il tempo di studiare le immagini e la complessità del progetto nel suo contesto.

© riproduzione riservata

Joe Gilbert è un filmmaker britannico puripremiato e innamorato dell’architettura brutalista. Tra i suoi lavori recenti, il documentario sull’edificio londinese del Barbican Urban Poetry, 2015 (premiato al Thurrock Film festival e a Screen Stockport), Streets in the Sky su Robin Hood Gardens estate (vincitore di Creativepool Annual 2016) e Hollamby’s Hill sul Central Hill housing estate, progettato da Edward Hollamby.

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