Chi sono i nuovi giovani designer italiani?

I giovani progettisti sono curiosi, non hanno dogmi, sanno muoversi fuori dai postulati del passato, non temono di mettersi in gioco sperimentando e rischiando: Silvana Annicchiarico, storica direttrice del Triennale Design Museum, ci offre una panoramica sul nuovo design in Italia.

Da quasi 15 anni mi occupo in modo sistematico dei giovani designer e dei loro percorsi e progetti creativi. Già nel 2007, mentre lavoravo all’apertura del Triennale Design Museum (il primo museo “mutante” al mondo, dedicato al design italiano) e alla consacrazione della storia del design italiano, sentivo il bisogno e l’urgenza di mappare e valorizzare il lavoro e il talento delle nuove generazioni. Con l’aiuto di un curatore d’eccezione come Andrea Branzi, organizzammo un’esplorazione accurata e sistematica di un territorio dai confini difficili da tracciare. Ne uscì, oltre a una mostra, anche una sorta di manifesto. Sostenevamo, allora, che il design degli anni Zero si situava e operava in un paradigma decisamente diverso rispetto a quello dell’epoca dei “Maestri”: l’obiettivo primario non era più quello di realizzare prodotti compiuti, funzionali e definitivi, ma piuttosto processi e percorsi di autorappresentazione della propria capacità di immaginare, creare e innovare. Sono passati 13 anni da allora e le cose sono almeno in parte cambiate.

Per l’emergenza legata al Covid19, certo. Ma non solo. Perché già prima della frattura epocale che la pandemia ha innescato anche nel mondo del design, da tempo si avvertivano forti segnali di cambiamento e una crescente necessità di ridefinire il ruolo del design in un mondo che stava e sta cambiando in modo vorticoso.

I designer più giovani manifestano ad esempio un’insofferenza crescente nei confronti di un’idea di design standardizzante e omologante, mentre riscoprono le potenzialità funzionali ed espressive dell’hand made e delle arti, valorizzando l’unicità dell’oggetto o del progetto anche quando parte di esso è ingegnerizzato o realizzato digitalmente. La globalizzazione mostra la corda, la delocalizzazione non paga più, il Made in Italy può tornare a essere non un’etichetta vuota o una facile formula di marketing, ma una promessa e al tempo stesso una garanzia. Si tratta di ripensare i sistemi economici e produttivi, di ridisegnare gli spazi, i movimenti, le relazioni. Con un atteggiamento innovativo simile a quello del dopoguerra: allora si trattava di ricostruire, oggi di inventare e innovare. I nomi su cui puntare ci sono: sono curiosi, non hanno dogmi, sanno muoversi fuori dai postulati del passato, non temono di mettersi in gioco sperimentando e rischiando. A unirli c’è una propensione comune allo sconfinamento e all’ibridazione.

Qualche esempio: Tip Studio prende lo scarto e lo pone al centro del progetto, Giuseppe Arezzi riesplora antiche tradizioni artigianali per dare risposte originali ai bisogni della contemporaneità, Antonio Facco teorizza lo sconfinamento fra arte e design ed esplora la lezione dei Maestri, a cominciare da Vico Magistretti, per declinarla nel paesaggio dell’oggi, Ilaria Bianchi utilizza materiali e tecniche contemporanee per riallacciarsi a quell’antichissima tradizione  che conferiva agli oggetti funzioni apotropaiche e li rendeva simboli di fertilità e vitalità, Federica Biasi mescola il lontano e il vicino e cerca di caricare di significati e non solo di funzionalità i suoi progetti, Guglielmo Brambilla a partire da oggetti umili come mattoni, tegole o piastrelle crea universi espressivi che rendono l’ordinario sorprendente e inatteso, in maniera analoga a quanto fa Flatwig Studio di Francesca Avian e Erica Agogliati che realizza con Ondula una collezione di complementi e arredi a partire  dalle lastre ondulate usate per ricoprire i tetti.

Per non parlare  di chi si pone come attento osservatore della quotidianità anche nei suoi aspetti più marginali come Matteo Di Ciommo, o dell’esuberante Sara Ricciardi, che crea oggetti sensuali sempre in bilico fra craft e industrial, ma pratica anche il social design e si pone come “attivatore sociale” che aiuta i cittadini a combattere la fatiscenza e lo squallore dei luoghi dell’abbandono, o di Andrea de Chirico, che con un approccio consapevolmente politico cerca di costruire network di progettisti che mettano in rete piccole produzioni di oggetti costruiti localmente ma con l’ambizione di saper parlare al mondo.

Ma non si possono dimenticare coloro che lavorano sull’innovazione dei processi e delle tecnologie, come lo studio Mais Project di Matteo Mariani e Isato Prugger, o il Caracol Studio di Giovanni Avallone, Jacopo Gervasini e Paolo Cassis, che con il loro Polo di Manifttura Additiva 4.0 si pongono come paradigma del nuovo percorso che il design ha intrapreso negli ultimi anni fra ricerca, sperimentazione e contaminazione. C’è una sfida che attende tutti loro: uscire dall’emergenza progettando oggetti e processi, arredi e luoghi che tutelino meglio la salute, la sicurezza e la sostenibilità senza che questo implichi l’oblio della bellezza e il sacrificio della nostra socialità.

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