Gli assoluti: i 10 progetti chiave per capire il design sostenibile

Sempre più imprescindibile nella pratica del design, la sostenibilità si configura come attività di cura e ripristino del legame tra uomo e ambiente. Una carrellata di progetti che hanno anticipato visioni e sperimentazioni sostenibili.

1. La cucina di Francoforte, Margarete Schütte-Lihotzky, 1926 Quando un ambiente di lavoro si può dire sostenibile? Con la celeberrima Cucina di Francoforte, la designer austriaca Margarete “Grete” Schütte-Lihotzky ripensa il focolare domestico – negli anni ’20 appannaggio esclusivo delle donne – come un efficiente “laboratorio per la casalinga”. Per ottimizzare la piacevolezza d’uso dello spazio di lavoro, Schütte-Lihotzky si dota di un approccio etnografico, intervistando le donne e documentando i loro movimenti e tempi di permanenza in cucina. La cucina, che inaugura una visione del progetto non normativo o dogmatico, ma al servizio delle esigenze dell’utente finale. Antesignano della cucina componibile, la Frankfurter Küche avrà un grande successo commerciale anche in virtù del suo prezzo volutamente abbordabile.

2. Sedia n.1, Enzo Mari, Autoprogettazione, 1977 Il designer comunista Enzo Mari non ha fatto ricorso al lessico della sostenibilità per definire la sua Autoprogettazione, manuale di autocostruzione nato come un ripensamento delle possibilità di produzione in un ecosistema capitalista. Eppure, la visione umanista che distingue queste istruzioni per l’uso anticipa di quarant’anni la via sostenibile al progetto. Rendendo possibile l’approvvigionamento di materiali da produttori locali, Mari annulla gli effetti perversi di una filiera produttiva globale. Eliminando le intermediazioni, ne diminuisce l’impronta. Limitando gli interventi decorativi, aggiorna il canone della bellezza ad un’essenziale, onesta semplicità d’uso, pur lasciando campo libero alla sperimentazione e ai guizzi dell’utilizzatore finale, rimesso al centro del processo non solo per quanto riguarda la familiarità con la materia e la tecnica, ma anche con il funzionamento del processo produttivo.

3. RCP2, Jane Atfield, Made of Waste, 1992-1996 La texture a terrazzo è diventata un nuovo classico per tutti quegli arredi e rivestimenti che aggregano materiali riciclabili in colorati amalgame con cui plasmare gli artefatti del nostro quotidiano. Prima che la dispersione e l’accumulo della plastica nei mari diventassero tristemente parte della nostra attualità, la designer inglese Jane Atfield aveva già anticipato l’opportunità di riutilizzare la plastica per la creazione di arredi. Nel caso di RCP2, la materia di risulta proviene da flaconi di detersivi. Sminuzzata, la plastica viene riscaldata e quindi pressata fino ad ottenere dei pannelli che, opportunamente tagliati, permettono l’assemblaggio elementare previsto dalla forma basica di questa seduta. L’intuizione della Atfield non è limitata a dare vita alla prima sedia in plastica riciclata, ma anche alla sua filiera produttiva: stoccate in centri di raccolta comunitari, le bottiglie venivano recuperate da Made of Waste, il brand fondato dalla stessa Atfield per diffondere e promuovere i materiali riciclati.

4. You cannot lay down your memory, Tejo Remy, Droog Design, 1993 Il design cosiddetto di riciclo è una delle grandi correnti della progettazione anni ’90, e i cassetti You cannot lay down your memory di Tejo Remy ne sono forse l’esempio più significativo e iconico. Volutamente sghemba, la struttura imperfetta e solo apparentemente precaria permette di combinare diverse tipologie di cassetti, favorendo l’improvvisazione e il recupero di quanto già disponibile. Oltre all’estensione del ciclo di vita di oggetti in apparenza destinati alla dismissione, You cannot lay down your memories mescola ironia e sentimentalismo: ogni cassetto è una scatola dei ricordi delle sue vite precedenti, ma anche uno stimolo a ricordare cosa è collocato in ogni contenitore.

5. Capsula Mundi, Anna Citelli, Raoul Bretzel, 2003 Sostenibili anche nella tomba? Con Capsula Mundi, Anna Citelli e Raoul Bretzel creano un dispositivo virtuoso e poetico per ripensare la dismissione del nostro corpo dopo la morte. Alla classica bara, i cui componenti non si riducono al legno ma anche a materiali plastici e metallici difficilmente degradabili, Capsula Mundi sostituisce un guscio organico dove collocare le spoglie o le ceneri del defunto. Collocata nel terreno al pari di un seme, la capsula si lega ad un nuovo albero che vi viene piantato sopra e a cui si offre come fertilizzante. In questa nuova simbiosi, un nuovo ciclo di vita viene attivato dopo la morte, mentre l’albero assume il valore di una tomba integrata nel paesaggio e nella natura.

6. Local River, Mathieu Lehanneur, 2008 Con Local River, il designer francese Mathieu Lehanneur ripensa la natura dell’acquario, qui trasformato in un nuovo strumento per l’allevamento di pesci d’acqua dolce e la coltivazione di piante. Il sistema applica i principi dell’idroponica su piccola scala: gli scarti biologici prodotti dai pesci, ricchi di nitrato, nutrono le piante collocate negli erbari superiori, favorendone la crescita senza l’impiego di fertilizzanti esogeni. Il "frigorifero-acquario", come Lehanneur l’ha denominato, anticipa di almeno una decade il multispecismo nell’ambiente domestico, e pur mantenendo inalterata la sua funzione decorativa, fa da apripista ai progetti per l’autoproduzione di cibo anche in piccoli appartamenti.

7. Solar Sinter, Markus Kayser, 2011 Solar Sinter è un dispositivo pensato per sfruttare un materiale - la sabbia - là dove è estremamente abbondante - il deserto - per dare vita a prodotti d’uso quotidiano a bassissimo impatto ambientale grazie alla tecnologia solare. L’esito di questa micro-filiera a circuito cortissimo è un oggetto in vetro stampato in tecnologia 3d che evita il ricorso a forni ad alte temperature grazie all’utilizzo di una lente di Fresnel capace di generare temperature tra i 1400 e i 1600 gradi. Macchina sperimentale adatta a produzioni di piccolissima scala, Solar Sinter ha anche il valore di un invito e di un auspicio a sperimentare l’integrazione di tecnologie solari nella progettazione e produzione di artefatti.

8. Mars, Alex Goad, 2013 Causata dall’aumento delle temperature e dalla crescente acidità dell’acqua, la drammatica scomparsa dei coralli affligge i mari tropicali e mette a rischio la sussistenza della barriera corallina. Una soluzione puntuale per favorirne la ricostituzione è stata messa a punto da Alex Goad, designer e ricercatore australiano. Con il suo MARS, acronimo di Modular Artificial Reef Structure, Goad ha progettato un sistema modulare in ceramica stampata in 3D che fornisce ai coralli uno scheletro su cui crescere. La struttura geometrica si offre invece come un surrogato dell’habitat delle specie marine, favorendone l’insediamento e la riproduzione della vita.

9. Otaared, Mercury’s Wanderer, Neri Oxman, 2014 L’inventrice della Material Ecology, l’israelo-americana Neri Oxman, è senza alcun dubbio la personalità che più ha contribuito a ripensare i limiti della progettazione attraverso le opportunità generate dalla sintesi tra design e bioingegneria. Dal MIT di Boston, dove insegna e dirige il gruppo di ricerca Mediated Matter, studia e sperimenta materiali biologici che vengono progettati per collaborare con il nostro ambiente antropomorfo, annullando di fatto il confine tra mondo costruito e mondo vivente. Il fascino dei lavori della Oxman non risiede solo nella loro avanguardia tecnica, ma anche negli immaginari – per i più conservatori certamente distopici – delle sue estetiche. È il caso di Otaared, un esoscheltro ramificato ispirato ai voli di Mercurio e pensato per avvolgerne e proteggerne il corpo. Al suo interno, l’esoscheletro contiene batteri calcificati con i quali far crescere, quasi fossero nuove protesi per voli pindarici, delle vere e proprie strutture ossee.

10. Designing for the Sixth Extinction, Alexandra Daisy Ginsberg, 2016 La rigenerazione della natura è un tema con cui i designer si confrontano con sempre maggiore frequenza. Tra questi, i biodesigner hanno un approccio decisamente laico: e se non lasciassimo la natura fare il suo corso, ma la aiutassimo a ricostituirsi attraverso la progettazione di nuove creature? Modellate su funghi, batteri, invertebrati e mammiferi, le nuove specie di Alexandra Daisy Ginsberg si sostituiscono a organismi oramai estinti offrendosi come uno scudo protettivo contro malattie, inquinamento o specie invasive.

Sulla bocca di tutti, la sostenibilità si impone come un nuovo paradigma in un mondo sempre più scosso dalle ripercussioni nefaste di tre secoli di sviluppo industriale. Nella sua posizione di perpetuo demiurgo, il design si è impossessato di questa parola rendendola la protagonista, o meglio l’aspirazione, di moltissimi progetti. Eppure, intrappolarne la definizione sembra essere un esercizio alquanto sfuggente. Così come del resto rintracciarne un’origine: l’artigianato pre-industriale, per molti una pratica di proto-design, non resta forse un modello produttivo virtuoso e sostenibile, tanto a misura d’uomo che dei ritmi biologici che lo circondano? Eppure, in un mondo dove la disponibilità delle risorse è sempre più sotto pressione, e i disequilibri ambientali si fanno ogni anno più minacciosi, la sostenibilità si concretizza oggi in approcci sempre più strutturati e fortemente promettenti per riparare agli scompensi che ci circondano. La circolarità è senz’altro uno di questi. Combattendo contro un modello estrattivo, l’estensione del ciclo di vita di un prodotto impersonato dall’economia circolare diventa un’opportunità per ripensare l’economia e la maniera con cui interi cicli produttivi sono strutturati. La simbiosi e il multispecismo, poi, offrono una interessante prospettiva di coabitazione in un antropocene da riformare. Il design sintetico guarda ancora più lontano: se le biotecnologie permettono di progettare nuove forme viventi, il design le può strumentalizzare per riparare i danni all’ambiente, collaborando con la natura per costruire approcci meno impattanti allo sviluppo.

C’è infine un’ultima leva che la sostenibilità odierna difficilmente dimentica: quella sociale. Interfaccia tra l’uomo e il suo ambiente, il design sa meglio di qualsiasi altro che un progetto, per quanto inventivo, non funziona mai in un ambiente asettico, in una camera sterile, ma deve coinvolgere e includere le attitudini, i bisogni e i desideri di chi lo usa. Tralasciare l’aspetto sociale e le sue pratiche di adozione da parte di singoli e comunità e condivisione sarebbe dunque nefasto. Una lezione che anche i grandi maestri del design avevano fatto propria, e che sempre di più ci sarà utile se vogliamo dare alle prossime generazioni di oggetti e al mondo che li circonda un volto più equilibrato e, perché no, felice.

1. La cucina di Francoforte, Margarete Schütte-Lihotzky, 1926

Quando un ambiente di lavoro si può dire sostenibile? Con la celeberrima Cucina di Francoforte, la designer austriaca Margarete “Grete” Schütte-Lihotzky ripensa il focolare domestico – negli anni ’20 appannaggio esclusivo delle donne – come un efficiente “laboratorio per la casalinga”. Per ottimizzare la piacevolezza d’uso dello spazio di lavoro, Schütte-Lihotzky si dota di un approccio etnografico, intervistando le donne e documentando i loro movimenti e tempi di permanenza in cucina. La cucina, che inaugura una visione del progetto non normativo o dogmatico, ma al servizio delle esigenze dell’utente finale. Antesignano della cucina componibile, la Frankfurter Küche avrà un grande successo commerciale anche in virtù del suo prezzo volutamente abbordabile.

2. Sedia n.1, Enzo Mari, Autoprogettazione, 1977

Il designer comunista Enzo Mari non ha fatto ricorso al lessico della sostenibilità per definire la sua Autoprogettazione, manuale di autocostruzione nato come un ripensamento delle possibilità di produzione in un ecosistema capitalista. Eppure, la visione umanista che distingue queste istruzioni per l’uso anticipa di quarant’anni la via sostenibile al progetto. Rendendo possibile l’approvvigionamento di materiali da produttori locali, Mari annulla gli effetti perversi di una filiera produttiva globale. Eliminando le intermediazioni, ne diminuisce l’impronta. Limitando gli interventi decorativi, aggiorna il canone della bellezza ad un’essenziale, onesta semplicità d’uso, pur lasciando campo libero alla sperimentazione e ai guizzi dell’utilizzatore finale, rimesso al centro del processo non solo per quanto riguarda la familiarità con la materia e la tecnica, ma anche con il funzionamento del processo produttivo.

3. RCP2, Jane Atfield, Made of Waste, 1992-1996

La texture a terrazzo è diventata un nuovo classico per tutti quegli arredi e rivestimenti che aggregano materiali riciclabili in colorati amalgame con cui plasmare gli artefatti del nostro quotidiano. Prima che la dispersione e l’accumulo della plastica nei mari diventassero tristemente parte della nostra attualità, la designer inglese Jane Atfield aveva già anticipato l’opportunità di riutilizzare la plastica per la creazione di arredi. Nel caso di RCP2, la materia di risulta proviene da flaconi di detersivi. Sminuzzata, la plastica viene riscaldata e quindi pressata fino ad ottenere dei pannelli che, opportunamente tagliati, permettono l’assemblaggio elementare previsto dalla forma basica di questa seduta. L’intuizione della Atfield non è limitata a dare vita alla prima sedia in plastica riciclata, ma anche alla sua filiera produttiva: stoccate in centri di raccolta comunitari, le bottiglie venivano recuperate da Made of Waste, il brand fondato dalla stessa Atfield per diffondere e promuovere i materiali riciclati.

4. You cannot lay down your memory, Tejo Remy, Droog Design, 1993

Il design cosiddetto di riciclo è una delle grandi correnti della progettazione anni ’90, e i cassetti You cannot lay down your memory di Tejo Remy ne sono forse l’esempio più significativo e iconico. Volutamente sghemba, la struttura imperfetta e solo apparentemente precaria permette di combinare diverse tipologie di cassetti, favorendo l’improvvisazione e il recupero di quanto già disponibile. Oltre all’estensione del ciclo di vita di oggetti in apparenza destinati alla dismissione, You cannot lay down your memories mescola ironia e sentimentalismo: ogni cassetto è una scatola dei ricordi delle sue vite precedenti, ma anche uno stimolo a ricordare cosa è collocato in ogni contenitore.

5. Capsula Mundi, Anna Citelli, Raoul Bretzel, 2003

Sostenibili anche nella tomba? Con Capsula Mundi, Anna Citelli e Raoul Bretzel creano un dispositivo virtuoso e poetico per ripensare la dismissione del nostro corpo dopo la morte. Alla classica bara, i cui componenti non si riducono al legno ma anche a materiali plastici e metallici difficilmente degradabili, Capsula Mundi sostituisce un guscio organico dove collocare le spoglie o le ceneri del defunto. Collocata nel terreno al pari di un seme, la capsula si lega ad un nuovo albero che vi viene piantato sopra e a cui si offre come fertilizzante. In questa nuova simbiosi, un nuovo ciclo di vita viene attivato dopo la morte, mentre l’albero assume il valore di una tomba integrata nel paesaggio e nella natura.

6. Local River, Mathieu Lehanneur, 2008

Con Local River, il designer francese Mathieu Lehanneur ripensa la natura dell’acquario, qui trasformato in un nuovo strumento per l’allevamento di pesci d’acqua dolce e la coltivazione di piante. Il sistema applica i principi dell’idroponica su piccola scala: gli scarti biologici prodotti dai pesci, ricchi di nitrato, nutrono le piante collocate negli erbari superiori, favorendone la crescita senza l’impiego di fertilizzanti esogeni. Il "frigorifero-acquario", come Lehanneur l’ha denominato, anticipa di almeno una decade il multispecismo nell’ambiente domestico, e pur mantenendo inalterata la sua funzione decorativa, fa da apripista ai progetti per l’autoproduzione di cibo anche in piccoli appartamenti.

7. Solar Sinter, Markus Kayser, 2011

Solar Sinter è un dispositivo pensato per sfruttare un materiale - la sabbia - là dove è estremamente abbondante - il deserto - per dare vita a prodotti d’uso quotidiano a bassissimo impatto ambientale grazie alla tecnologia solare. L’esito di questa micro-filiera a circuito cortissimo è un oggetto in vetro stampato in tecnologia 3d che evita il ricorso a forni ad alte temperature grazie all’utilizzo di una lente di Fresnel capace di generare temperature tra i 1400 e i 1600 gradi. Macchina sperimentale adatta a produzioni di piccolissima scala, Solar Sinter ha anche il valore di un invito e di un auspicio a sperimentare l’integrazione di tecnologie solari nella progettazione e produzione di artefatti.

8. Mars, Alex Goad, 2013

Causata dall’aumento delle temperature e dalla crescente acidità dell’acqua, la drammatica scomparsa dei coralli affligge i mari tropicali e mette a rischio la sussistenza della barriera corallina. Una soluzione puntuale per favorirne la ricostituzione è stata messa a punto da Alex Goad, designer e ricercatore australiano. Con il suo MARS, acronimo di Modular Artificial Reef Structure, Goad ha progettato un sistema modulare in ceramica stampata in 3D che fornisce ai coralli uno scheletro su cui crescere. La struttura geometrica si offre invece come un surrogato dell’habitat delle specie marine, favorendone l’insediamento e la riproduzione della vita.

9. Otaared, Mercury’s Wanderer, Neri Oxman, 2014

L’inventrice della Material Ecology, l’israelo-americana Neri Oxman, è senza alcun dubbio la personalità che più ha contribuito a ripensare i limiti della progettazione attraverso le opportunità generate dalla sintesi tra design e bioingegneria. Dal MIT di Boston, dove insegna e dirige il gruppo di ricerca Mediated Matter, studia e sperimenta materiali biologici che vengono progettati per collaborare con il nostro ambiente antropomorfo, annullando di fatto il confine tra mondo costruito e mondo vivente. Il fascino dei lavori della Oxman non risiede solo nella loro avanguardia tecnica, ma anche negli immaginari – per i più conservatori certamente distopici – delle sue estetiche. È il caso di Otaared, un esoscheltro ramificato ispirato ai voli di Mercurio e pensato per avvolgerne e proteggerne il corpo. Al suo interno, l’esoscheletro contiene batteri calcificati con i quali far crescere, quasi fossero nuove protesi per voli pindarici, delle vere e proprie strutture ossee.

10. Designing for the Sixth Extinction, Alexandra Daisy Ginsberg, 2016

La rigenerazione della natura è un tema con cui i designer si confrontano con sempre maggiore frequenza. Tra questi, i biodesigner hanno un approccio decisamente laico: e se non lasciassimo la natura fare il suo corso, ma la aiutassimo a ricostituirsi attraverso la progettazione di nuove creature? Modellate su funghi, batteri, invertebrati e mammiferi, le nuove specie di Alexandra Daisy Ginsberg si sostituiscono a organismi oramai estinti offrendosi come uno scudo protettivo contro malattie, inquinamento o specie invasive.