Francia, 1883. Claude Monet ha 43 anni ed è appena tornato da un lungo viaggio in Normandia. Una mattina, dopo colazione, comunica alla compagna Alice Hoschedé il suo desiderio di trasferirsi con i loro figli – sei di lei, due di lui – vicino a Giverny, un paesino normanno di allora 300 abitanti alla confluenza della Senna con l’Epte. Si è innamorato del paesaggio che considera ideale per pittura e botanica, le sue passioni. Alice lo guarda, lo ascolta e alla fine sorride. Partiranno. Monet acquista una grande residenza con un fienile e un ampio orto, che trasformerà in atelier e giardino mentre ristruttura la casa, lavorando sulla relazione tra dentro e fuori. La facciata è rosa brillante, gli interni tendenzialmente scuri e freddi, con mattonelle blu in cucina, pareti gialle nella sala da pranzo e azzurre nel salotto, dove spiccano le amate stampe giapponesi di Hiroshige e Utamaro, con la loro idea di natura che tanto impressiona il pittore.
Se l’interno della casa di Giverny ricalca i cliché dell’architettura borghese della Francia di fine secolo, l’outdoor è la vera intuizione del genio di Monet. Il grande orto si trasforma in un giardino che non segue la tradizione ortogonale parigina ma è libero, irrazionale, seminato con fiori che sbocciano in tutte le stagioni. Nasce così il Clos Normand, la vera fonte d’ispirazione di Monet, che dieci anni dopo lo amplia, acquistando un terreno dall’altro lato della ferrovia. Qui ha pensato un altro progetto, un bacino dove intende coltivare una nuova specie di fiore tropicale, ottenuto dall’incrocio delle ninfee bianche con una varietà tropicale. Monet l’ha scoperta per caso all’Esposizione Universale del 1889 e in quel momento ha capito che gli sarebbero serviti molta acqua e un ponte. La prima arriverà grazie alla deviazione del Ru, un affluente dell’Epte. Il secondo dal Giappone, ispirato proprio alle amate stampe di Hirosige e Hokusai, che adornano il suo salotto.
Italia, 1861. Silvestro Lega ha 35 anni, è un pittore già famoso che non riesce più a trovare ispirazione a Firenze, dove è arrivato poco più che ragazzo da Modigliana, per inseguire il sogno dell’arte ma anche sfuggire a una vita di ristrettezze. Al tempo stesso, non vuole allontanarsi troppo dalle pietre, i caffè e la vita di Firenze, che è una capitale europea. Decide così di trasferirsi nella residenza di campagna della famiglia Batelli alla Piagentina, in Oltrarno. Oggi è un quartiere molto trafficato, accostato a Porta alla Croce ma, in quegli anni, era considerata aperta campagna, ai piedi della collina di Fiesole, dove il torrente Africo si butta nell’Arno. Quella dei Batelli era una delle poche case coloniche vicino alla Trattoria del Gobbo di Bellariva, locale molto amato da artisti e borghesia. Lega fu stregato da questo luogo a cui dedicò uno dei suoi capolavori, Un dopo pranzo (Il pergolato), dipinto nel 1868 e oggi conservato alla Pinacoteca di Brera. È una scena di vita familiare all’aperto, con la tipica aria della fine estate. In primo piano, una domestica che sta portando un vassoio. In secondo piano, il gruppo delle donne di famiglia e una bambina. Un compleanno, forse, o forse un giorno qualunque. L’outdoor qui è una specie di cortile, dove si percepisce l’afa estiva. Vestite come al tempo, le donne trovano riparo sotto un pergolato ricoperto di rami di vite. In lontananza, un paesaggio e una casa, probabilmente colonica, ma non è chiaro. Quindi un prato e, infine, lo sfondo con un filare di alberi.
Influenzati da Lega, altri artisti decisero di spostarsi alla Piagentina, formando il gruppo che avrebbe preso il suo nome. Arrivarono Giuseppe Abbati, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi e infine il più raffinato di tutti, Telemaco Signorini. Sono il primo nucleo dei Macchiaioli, che volevano reagire all’inerzia delle accademie, accesi dal fermento del Risorgimento. La teoria della macchia non è solo una speculazione, ma la visione delle forme creata dalla luce attraverso macchie di colore, proprio come avviene nelle campagne toscane. Macchie distinte, accostate, sovrapposte. L’artista, per i Macchiaioli, è così svincolato da formalismi accademici, del tutto libero di rappresentare le scene reali di quello che si presenta ai suoi occhi, senza interpretazione né manierismo, ma con immediatezza verista. È la pittura dell’outdoor italiano, un luogo addomesticato dalla luce dove le emozioni si fanno quinta di quella vicenda informale, rallentata, familiare, indistinta che chiamiamo vita.