Exhibiting the Postmodern

Il libro di Léa-Catherine Szacka è un prodigioso corpus di ricerca che narra il percorso che portò a uno “scisma decisivo” del mondo dell’architettura: il passaggio concettuale dal Moderno al Postmoderno.

Exhibiting the Postmodern
Léa-Catherine Szacka, Exhibiting the Postmodern: The 1980 Venice Architecture Biennale, Marsilio Editori, Venezia 2016.

 

In un saggio scritto per il quotidiano El País nel 1988 lo scrittore spagnolo Javier Marías, come molti prima e dopo di lui, scriveva dell'immutabilità della fisionomia di Venezia. Le sue osservazioni, esplicitamente rivolte al particolare ceto della “gente perbene” (i veneziani veri) citavano, a proposito dello spettacolo serale del “vedere e farsi vedere”, “certe signore che si adornano all'eccesso mani, orecchie e collo per il loro bisogno di mettere in risalto, be’, principalmente se stesse”. Se di sabato sera vi capitasse di avere un posto in un palco della Fenice, il teatro dell’opera cittadino, potreste notare anche la notevole abilità di certe veneziane nel nascondere la loro età grazie agli ornamenti, raggiungendo in tal modo la stessa illusione di immutabilità che promana dalla città.

 

Nella loro ingannevole giovinezza le origini della Biennale di Venezia Architettura sono state sfumate e storicizzate dal tempo. Era il 27 luglio 1980 allorché la prima Biennale Architettura aprì i battenti alle Corderie dell’Arsenale, un lungo e verticale spazio nell'area dell’ex cantiere navale cittadino. Di questa edizione, nota con il titolo La presenza del passato, di cui fu curatore un giovane e ambizioso Paolo Portoghesi, due immagini sopravvivono tra le altre. La prima è la Strada Novissima, una via racchiusa tra facciate ben allineate che si confrontano simbolicamente in risoluto e aggressivo silenzio. La seconda è il Teatro del mondo di Aldo Rossi: un teatro montato su una chiatta che è passato per virtù propria nel pantheon delle costruzioni spettacolari.

Al di là dei numerosi preconcetti e degli equivoci germogliati da questo mito, della consistente documentazione storica sulle installazioni e delle loro implicazioni per le mostre d’architettura, l'evoluzione della Biennale di Venezia Architettura come piattaforma di dibattito e d’esposizione – e del movimento postmoderno in senso più ampio – è rimasta elusiva. Exhibiting the Postmodern: The 1980 Venice Architecture Biennale, fondamentale recente saggio dell’architetto, docente e critica Léa-Catherine Szacka, è un prodigioso corpus di ricerca, di attente letture, di interpretazioni locali e internazionali della manifestazione, di interviste con il curatore e con i partecipanti, che disegna il percorso che catalizzò uno “scisma decisivo” del mondo dell’architettura: cioè il passaggio concettuale dal Moderno al Postmoderno.
Il canone delle mostre d’architettura – dal settecentesco Salon parigino alle mostre moderniste degli anni Venti e Trenta, al periodo post-Pompidou degli anni Settanta – è il racconto di una storia ricca e varia. Ma il particolare modello espositivo definitivamente adottato dalla Biennale di Venezia (fatto di partecipazioni nazionali e mostre tematiche) è nato, per quanto distante ne sia, da quel grande racconto. Ne è risultata la sua affermazione come la manifestazione più importante del settore. Ma le proporzioni e la fama hanno alimentato un ineludibile carattere istituzionale e, per quanto la manifestazione possa aver accresciuto in modo spettacolare la sua portata negli ultimi quattro decenni, è maturata, nell'insieme, fino a divenire un elemento anodino rispetto alle controversie e gli interessi cui oggi la disciplina, e più in generale la professione, si trovano di fronte. Exhibiting the Postmodern, che andrebbe considerato come il primo resoconto autorevole di quella mostra inaugurale, articola la discussione tra storia, formazione, contesto e implicazioni più vaste.
La presenza del passato comprendeva sette sezioni, precedute da un monumentale portale d’ingresso giallo, azzurro e bianco progettato da Aldo Rossi: un’allusione, forse, all’ingresso dell’Arsenale dal lato di terra, ornato dal leone di San Marco. La sua forma audace e imponente era soprattutto il simbolo di un senso di restaurazione: cioè che il vasto complesso di spazi che annunciava era stato restituito alla città in qualità di spazio culturale semipubblico. Oltrepassata la soglia i visitatori venivano accolti da un omaggio a Philip Johnson, l’architetto che ebbe ad affermare che “non si può non conoscere la storia”, il quale era, secondo Szacka, il “vero ospite d’onore” della Biennale. Veniva anche allora considerato da molti il padre della crociata postmoderna. E che avesse vinto l’anno precedente l’edizione inaugurale del premio d’architettura Pritzker conferiva alla mostra un certo grado di legittimazione.
La Strada Novissima riuniva venti gruppi di architetti di otto differenti paesi, che contavano tra le loro file personaggi come Graves, Gehry, Ungers, Venturi, Scott Brown, Hollein, Bofill, Koolhaas e Zenghelis. A parte uno o due partecipanti giapponesi e statunitensi, erano tutti europei e soprattutto tutti uomini: una caratteristica che Szacka ipotizza fosse il risultato di “numerosi compromessi e […] imprevedibili rifiuti di partecipare”. Chi accettò l’offerta fu invitato a ideare e costruire una facciata progettata per esprimere “il senso della forma” tipico di ciascuno, con un particolare riferimento al tema della mostra: “Il rapporto che esiste oggi tra l’eredità del passato e il lavoro progettuale”. Sopra la Strada, con un ingresso attraverso la facciata di Portoghesi, 55 architetti della “generazione più giovane” avevano allestito una specie di Corridoio vasariano formato da autoritratti. Alla fine c’era la mostra dei critici: una piccola collezione di vetrine allestita da Charles Jencks, Christian Norberg-Schulz e Vincent Scully, progettata per offrire al visitatore non specialista una migliore comprensione dei più ampi dibattiti in gioco. In fondo all’Arsenale sorgeva il Teatro del mondo.
La mostra, suggerisce Szacka, non veniva considerata rivoluzionaria nel contesto del panorama dell’architettura italiana di quegli anni. Sullo sfondo di Venezia, città di superfici, di riflessi e di spettacoli carnevaleschi, la Strada era poco più dell’amplificazione di una situazione urbana in cui decorazione e ornamento erano – e restano – un imperativo architettonico. Queste facciate, perciò, potevano non essere considerate edifici ‘veri’. Erano, nelle parole dell’autrice, “prive di ogni qualità tettonica e spaziale”. In questa atmosfera di ambiguità veniva per la prima volta resa esplicita una persistente domanda, centrale per il Postmoderno: che cosa viene prima, nel progetto? Il disegno o la costruzione? Secondo Szacka la Strada era “uno spazio autorappresentativo”. Qualunque senso di coerenza passava in secondo piano rispetto alla complessiva pluralità di risposte date al tema proposto; “L’intenzione”, afferma, “non era far credere ai visitatori di trovarsi in una strada vera. Era piuttosto dar occasione agli architetti di catturare la fantasia dei visitatori e metterli in ‘contatto’ con l’architettura”.
Al contrario di quanto sostengono certe scuole di pensiero l’architettura ‘postmoderna’ non nacque nel 1980. Detto ciò La presenza del passato, per usare le parole di Robert Stern, “raggiunse l’apice dell’influsso stilistico [del movimento]”. La parola stessa, si noti, non compariva nel titolo della mostra: fatto che Szacka attribuisce alle “lunghe e complesse discussioni” all’interno del “comitato degli esperti”. Tra gli altri potenziali titoli presi in considerazione ci furono Il futuro del passato, Dopo l’architettura moderna (che è anche il titolo di un libro di Portoghesi del 1980) e, relativamente più enfatico, POSTMODERNO. Quando la mostra si trasferì in Francia nel 1981 il titolo venne cambiato con un richiamo a uno di questi primi contendenti: La présence de l’histoire. L’après modernisme (“La presenza della storia: dopo il Modernismo”), suggerendo una frattura più netta con l’ideologia modernista. Il problema della definizione, tuttavia, rimase: un punto di dissidio su cui Szacka argomenta a lungo.
La polemica intellettuale che Exhibiting the Postmodern illustra è inestricabilmente legata alle preoccupazioni politiche, pedagogiche e teoriche dell’epoca, molte delle quali focalizzate sul particolarissimo contesto italiano (e più specificamente veneziano, romano e milanese). Nella conclusione, dal ritmo meno pacato rispetto ai capitoli precedenti, vengono espresse numerose affermazioni critiche. Tra queste il concetto chiave che “la Biennale di Venezia Architettura fu l’anticipazione di quel che l’architettura sarebbe divenuta sotto l’economia di mercato”. Nel 2014, in riferimento alla Biennale diretta da Rem Koolhaas, “parve che la formula elaborata all’inizio degli anni Ottanta si fosse esaurita e avesse bisogno di una reinvenzione”, sostiene Szacka. È l’idea del ‘cerchio che si chiude’: un’allusione al fatto che l’edizione del 2014 cercasse di concludere una discussione iniziata nel 1980, e un confronto tra le due edizioni. Un concetto che è il nucleo della ricerca dell’autrice.
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