L’irrinunciabile centralità dello spazio

Lo spazio è il protagonista centrale del bel libro di Federico Bilò, che analizza tre progetti poco noti di Giancarlo De Carlo: le colonie marine di Riccione e Classe, e la casa per vacanze a Bordighera.

Federico Bilò, Tessiture dello Spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961, Quodlibet, Macerata 2014

 

“Dopo le alluvioni e i terremoti un nuovo cataclisma sconvolge il nostro Paese: la rivolta dell’Università.” Con queste parole si apriva La piramide rovesciata, il testo con cui Giancarlo De Carlo dissezionava l’istituzione accademica italiana all’indomani delle rivolte studentesche del 1968. La condizione dell’università veniva eletta dall’architetto genovese a paradigma di una più vasta condizione della società che chiedeva a gran voce una profonda revisione degli apparati istituzionali in ragione di un repentino mutamento di stili di vita e condizioni lavorative. In quanto luogo votato al vivere e lavorare collettivo, era nel progetto dell’università che De Carlo, come d’altronde altri architetti – italiani e non – tra gli anni Sessanta e Settanta, individuava un fondamentale banco di prova per avanzare una risposta architettonica a tale mutamento.

Federico Bilò, <i>Tessiture dello Spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961</i>, Quodlibet, Macerata 2014
Federico Bilò, Tessiture dello Spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961, Quodlibet, Macerata 2014
L’operato architettonico di De Carlo è comunemente associato a due aspetti principali, uno di carattere “ideologico”, l’altro di carattere “tematico”: il primo è la “partecipazione” nel processo progettuale, il secondo riguarda, appunto, il tema della progettazione di organismi universitari. L’architetto genovese è, infatti, noto ai più per la lunga esperienza progettuale per l’Università di Urbino, iniziata fin dalle prime fasi della sua pratica professionale agli inizi degli anni Cinquanta, e continuata per alcuni decenni. Considerabile una delle ultime grandi occasioni di mecenatismo pubblico, il rapporto tra il Rettore dell’Università Carlo Bo e il suo architetto – De Carlo – fu un’occasione per quest’ultimo di mettere alla prova le proprie idee sul senso del fare architettura.
Federico Bilò, <i>Tessiture dello Spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961</i>, Quodlibet, Macerata 2014
Federico Bilò, Tessiture dello Spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961, Quodlibet, Macerata 2014
È su questo senso che riflette il libro di Federico Bilò Tessiture dello spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961 pubblicato di recente da Quodlibet. L’autore opera però la scelta di evitare ciascuno dei due aspetti del lavoro di De Carlo sopra menzionati, e dichiara in maniera esplicita il proprio intento: riposizionare il vero tema centrale del fare architettura nella duplice operazione di organizzazione e formalizzazione dello spazio. Lo spazio è, dunque, il protagonista centrale del bel libro di Bilò, che non nasconde una denuncia nei confronti di una deriva dell’architettura contemporanea (dagli anni Ottanta in poi, afferma l’autore) dal concentrarsi principalmente su quella duplice operazione sopra richiamata e verso un crescente primato dell’immagine come fine ultimo dell’architetto. Una denuncia, questa, che ad alcuni potrebbe risuonare come un leitmotiv ormai abusato nei confronti delle “società dello spettacolo”, “non luoghi”, “archi-star”, ecc. In realtà, è questa una lettura del libro di Bilò che va immediatamente sfatata, per non correre il rischio di travisarne il giusto valore.
Federico Bilò, <i>Tessiture dello Spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961</i>, Quodlibet, Macerata 2014
Federico Bilò, Tessiture dello Spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961, Quodlibet, Macerata 2014
Senza dubbio, un primo motivo valido che non può passare inosservato a chiunque abbia un interesse per l’architettura è la scelta di analizzare tre progetti poco noti di Giancarlo De Carlo, le cui qualità risultano talmente palesi da chiedersi come mai non siano stati presi in seria considerazione in precedenza – e da portare a desiderare una riproduzione di disegni e diagrammi in formato più grande rispetto a come presentati nei limiti di spazio offerti dalla collana editoriale. I tre progetti sono la colonia marina a Riccione, la casa per vacanze a Bordighera, e la colonia marina a Classe (quest’ultima oggetto di epurazione dal regesto di opere dell’architetto genovese eseguita dallo stesso De Carlo nel 1972). Oltre al fatto di essere tutti stati redatti nel 1961, i tre progetti hanno in comune il tema progettuale: nei tre casi, si tratta di luoghi per la creazione di collettività temporanee. In questo senso, essi funzionarono da primo banco di prova per le riflessioni sui rapporti tra individualità e collettività che De Carlo affinò in seguito nei progetti per l’università. Bilò descrive i tre progetti con precisione nei tre capitoli monografici che aprono il libro, mettendo in tal modo subito il lettore “davanti al fatto compiuto”, ovvero alla tesi da lui sostenuta: la centralità dello spazio nell’opera di De Carlo.
Questo porta a un secondo motivo d’interesse del libro, e cioè al tentativo di contribuire alla formulazione di quella che l’autore definisce un’antropologia dello spazio. Attraverso una revisione della letteratura sul tema (il lettore è portato a confrontarsi con autori come Edward Hall, Francoise Choay, Bill Hillier e Julienne Hanson, ma anche Georges Perec e Roland Barthes), Bilò esplora il registro antropologico come la controparte dialettica del registro figurativo, e sottolinea come quest’ultima sia spesso concepita dagli architetti come unica declinazione possibile dello spazio. Piuttosto, l’autore insiste sul fatto che il fine ultimo dell’architettura non sia quello di produrre oggetti tridimensionali, quanto quello di definire ordinamenti spaziali. I tre progetti di De Carlo sono, così, discussi in termini topologici piuttosto che tipologici, sostenendo un’avversione nei confronti di una certa riduzione del pensiero tipologico (benché tale parola non compaia nel libro di Bilò) che ha svilito il fare architettura come una mera pratica di associazione di soluzioni spaziali a usi e funzioni ipoteticamente definibili e classificabili. Nelle colonie di Riccione e Classe e nella casa vacanze di Bordighera, questa ennesima critica a quel “funzionalismo ingenuo” denunciato quasi cinquant’anni fa da Aldo Rossi, trova una propria esplicazione nel modo in cui gli spazi dei tre progetti di De Carlo, sostiene Bilò, si spiegano attraverso categorie diverse da quelle funzionali: il chiuso, l’aperto, il continuo, il discontinuo, il limite, la soglia.
Federico Bilò, <i>Tessiture dello Spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961</i>, Quodlibet, Macerata 2014
Federico Bilò, Tessiture dello Spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961, Quodlibet, Macerata 2014
Vi è, infine, almeno un terzo livello di lettura del testo che riguarda il ruolo di De Carlo all’interno di quel fenomeno architettonico che fu il Team X: non un vero “movimento”, conferma Bilò, quanto una condivisa dichiarazione d’intenti da parte di un gruppo di progettisti di diversa provenienza internazionale. Il libro di Bilò si aggiunge a un più vasto interesse su scala internazionale per il lavoro e il pensiero del Team X, che negli ultimi anni ha dato alla luce vari studi monografici sui singoli protagonisti. Inoltre, si conferma un evidente sforzo da parte dell’editore di ampliare la conoscenza sull’opera di un architetto fondamentale del secondo Novecento, non solo in Italia (il libro di Bilò si affianca ai due precedenti volumi di De Carlo “L’architettura della partecipazione” e “Viaggio in Grecia”, sempre pubblicati da Quodlibet). Questa recente ondata d’interesse nei confronti di coloro che tentarono una ricostruzione dell’architettura dopo la deriva dei principi del Movimento Moderno si affida solitamente a una comune retorica: la riscoperta di un’intelligenza propria della città tradizionale. Bilò non si esime dall’inserire la propria discussione di De Carlo all’interno di tale linea analitica, riassumendola nella formula dello “spazio urbano come paradigma”. Vengono così richiamate le principali nozioni con cui la critica ci ha abituato a leggere una specifica stagione dell’architettura: il mat-building, la riscoperta della strada, la “chiarezza labirintica” (labyrinthian clarity), l’in-between, come caratteristiche estratte dallo spazio urbano, e declinate alla scala dell’architettura. Il mat-building, in particolare, è di recente tornato oggetto di attenzione, e il fatto che la triade di progetti discussa da Bilò sia presentata come una tendenza verso la definizione del mat-building farebbe ipotizzare una piena congruenza tra l’opera di De Carlo e quella dei suoi colleghi – Shadrach Woods e Aldo Van Eyck in particolare.
Lavori successivi di De Carlo avrebbero provato, invece, come tale congruenza fosse solo passeggera. Se Shadrach Woods, con Candilis e Josic, costruì quello che Alison Smithson prese come punto di partenza per definire, a ritroso, una genealogia dell’idea di mat-building – l’Università Libera di Berlino del 1963 –, allo stesso tempo essa diventò un punto di arrivo stabile di una ricerca progettuale. Prova di ciò sono le re-iterazioni del diagramma dell’università berlinese in opere successive del gruppo Candilis, Josic & Woods. Di contro, il cammino di De Carlo non si cristallizzò in una soluzione architettonica universale, ma proseguì secondo strade diverse e, si potrebbe dire, secondo un altro modo di concepire lo “spazio urbano come paradigma”.  
Questo ci riporta là dove abbiamo iniziato, e cioè nello spazio dell’università. Non a caso, Bilò termina il suo saggio con un richiamo al progetto che l’architetto genovese presentò al concorso per l’Università di Dublino nel 1963. Quello che Bilò non menziona è la concomitante partecipazione di Shadrach Woods al concorso. Né De Carlo né Woods vinsero a Dublino; tuttavia, una differenza sostanziale fu che mentre l’architetto americano sfruttò il concorso per riproporre il macchinario architettonico con cui aveva vinto il concorso per l’università di Berlino, De Carlo compì un’ulteriore affinamento della propria ricerca progettuale sul rapporto tra individualità e collettività, senza perciò replicare nessuna delle soluzioni formali precedentemente sperimentate nei tre progetti per colonie e case vacanze, o nel celebre Collegio del Colle a Urbino. Questo, in definitiva, conferma la tesi centrale di Bilò, ovvero il fatto che nell’opera di De Carlo il registro formale e quello antropologico coesistono. E, potremmo aggiungere in conclusione, il fatto che tale coesistenza, di volta in volta, non risultasse in soluzioni prevedibili è ciò che ci spinge a scavare ancora più a fondo nell’archivio di un architetto che è necessario, oggi, conoscere meglio.   
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