Hans Ulrich Obrist

Il vulcanico Obrist ha stavolta riunito in undici interviste i profili più diversi, da Harald Szeemann al compianto Johannes Cladders, scomparso quando il volume era già stato dato alle stampe, che hanno contribuito a creare l'arte contemporanea del dopoguerra in Europa e in America da nord a sud

A Brief History of Curating
Hans Ulrich Obrist, prefazione di Christophe Cherix, postfazione di Daniel Birnbaum, jrp Ringier/Les Presses du réel, Zurigo/Digione 2008 (pp. 244, € 15,00)

"Conservator – what a terrible word!". Ci si può quasi figurare Pontus Hultén che, deciso, discerne il suo mestiere da altre mansioni museali che, già dal nome, evocano più staticità.
Né conservatore, né critico, né collezionista, che cos'è dunque un curatore?
Non ha l'ambizione di darvi una risposta univoca – visto il titolo del volume che menziona espressamente curating – nemmeno il vulcanico Obrist, che ha stavolta riunito in undici interviste i profili più diversi, da Harald Szeemann al compianto Johannes Cladders, scomparso quando il volume era già stato dato alle stampe, che hanno contribuito a creare l'arte contemporanea del dopoguerra in Europa e in America da nord a sud. Alla luce di questi percorsi esemplari emerge non solo una vasta molteplicità di ruoli attribuiti al curatore – da ombra che scompare dietro all'artista di una mostra a creatore di musei –, ma soprattutto il fatto tangibile che curatore non si nasce, ma si diventa, per quanto sia diversa la formazione – pensiamo a Anne d'Harnoncourt, figlia d'arte che ha trascorso tutta la vita all'interno del museo o alla critica femminista Lucy Lippard che, da acribica archivista, si è trovata a organizzare mostre e non ha mai smesso, pur senza trascurare le sue pubblicazioni – e, soprattutto, si rimane: è la scoperta della passione come mestiere, non sempre a tempo pieno, ma senza compromessi. Non si tratta, comunque, di storie e destini individuali: fatti, persone, avvenimenti si avvicendano senza sosta coinvolgendo altri ambiti quali il teatro, il cinema e la musica jazz. Sono i contatti, gli incontri, a rendere la storia ancora viva e presente.

Sul doppio effimero – le mostre temporanee, quasi sempre teatro e palestra dell'arte del XX secolo e l'oral history – si muove Obrist con queste righe. Daniel Birnbaum lo ritiene un archeologo mentre Christophe Cherix vede in queste interviste una sorta di traccia per il lavoro di ogni futuro curatore. Di riflesso emerge però un altro aspetto essenziale: quanto sia indispensabile qualcuno che si faccia esploratore e narratore, una ruolo tra il Marco Polo tra i continenti e il Socrate maieutico in bilico tra esperienze fugaci, a loro tempo rivoluzionarie proprio perché tali (si pensi all'esposizione a costo zero "Thirty Six Hours" di Walter Hopps a Washington). Da qui non a caso due domande ricorrenti in tutte le interviste: il catalogo o in generale, l'interesse alla documentazione relativa a una mostra, anche in forme quali i box del museo Abteiberg di Mönchengladbach nati come alternativa al volume a stampa troppo costoso, ovvero l'idea di catturare il passato prossimo, e i progetti che i singoli curatori non hanno avuto l'occasione di realizzare, ovvero l'effimero a venire (forse), ma ancora presente e vivo nel ricordo.

Poco importa che le undici interviste siano state in parte già pubblicate; al contrario, stupisce il fatto che alcune abbiano avuto luogo già nel 1996 e che si lascino infilare l'una di seguito all'altra quasi a formare – senza retorica – un filo di perle. Chi ha conosciuto Obrist, se non altro attraverso le pagine di Domus, constaterà la versatilità di questo mezzo di documentazione, l'intervista.
Al lettore la risposta all'interrogativo se sia un libro, raccolta o catalogo, anche di mostra (!), a garantire durevolezza a una testimonianza, sopravvivere all'inserto in un periodico, o se invece non sia la forma della narrazione stessa a rendere duraturo un incontro.

Introduce Christophe Cherix, chiude Daniel Birnbaum, il quale salta un paio di generazioni (gli undici protagonisti sono nati tutti tra il 1923 e il 1937) e intervista Suzanne Pagé del Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris dove a sua volta è stato Obrist curatore: è questa un'opera in cui tre persone del mestiere si rivolgono a un pubblico altrettanto scelto? In realtà il volume è appassionante sia per lo specialista sia per il lettore profano: ad accompagnarlo sono i nomi ricorrenti grazie ai quali persone e personaggi – tra i quali i numi tutelari e grandi assenti parforce William Sandberg dello Stedelijk Museum Amsterdam e Marcel Duchamp – si ritrovano sempre nell'intervista precedente o in quella successiva, quasi si avesse sotto gli occhi un unico racconto letto sotto diverse angolazioni e coordinate geografiche. Si stenta a credere che, contrariamente a quanto asserito più volte nelle interviste, il mondo dell'arte contemporanea cinquant'anni fa fosse davvero più piccolo di quello odierno.
Un bel libro al quale vien voglia di aggiungere un sottotitolo – "Una magia più forte della morte", come diceva una mostra (dedicata a Jean Tinguely a Palazzo Grassi da Pontus Hultén) nel 1987. Donatela Cacciola

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