Volkswagen, Volksempfänger, Volksgemeinschaft. “Volksprodukte” im Dritten Reich: Vom Scheitern einer nationalsozialistischen Konsumgesellschaft Wolfgang König Paderborn, Schöningh 2004 (pp. 310, 21 illustrazioni b/n, € 36,00)
Come fa il popolo tedesco a esorcizzare il fantasma del nazionalsocialismo? A sessant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale la Germania vive oggi un momento molto particolare: l’aspetto più manifesto del suo Zeitgeist è quello della ‘Vergangenheitsbewältigung’, il termine precipuo per indicare il confronto con il passato (e solo con quel passato).
Ciò non implica però una presa di posizione e di coscienza immediata o scevra da tabù e circospezione rispetto alla storia del terzo Reich, come ha mostrato il film dello scorso anno Der Untergang (La caduta), che ha fatto sensazione più che per la trama – la ricostruzione degli ultimi giorni di Adolf Hitler (impersonato da Bruno Ganz nel suo primo ruolo da cattivo) – per avere finalmente (!) portato sulle scene un tale soggetto. Piuttosto è l’accessibilità a molti archivi storici statali e aziendali – in Germania la libera consultazione di atti ufficiali si ottiene dopo trent’anni, per quelli privati ci vuole tanta fortuna; molti ritrovamenti e ricostruzioni sono stati possibili solo negli ultimi tempi – ad aver dato un fondamento scientifico a questo confronto con il passato. Ma se recente è la ricostruzione delle vicende di aziende produttrici di elettrodomestici durante il periodo 1933-1945 quali la berlinese Graetz (“una storia molto tedesca”, come dice l’autore di quel volume del 2003, Peter Süß – ma chi non ricorda le radio Graetz-Pagino diffuse fino agli anni Sessanta anche in Italia?) Wolfgang König (n. 1949), docente alla Technische Universität di Berlino, già da molto tempo si dedica, sotto il punto di vista della storia economica e sociale, ai cosiddetti ‘Volksprodukte’, i “prodotti popolari” dal magro seguito bibliografico al di fuori della Germania.
Questo volume è il compendio di molte altre sue pubblicazioni sul tema. La struttura è quella classica di un saggio: il complesso di problemi introdotto da König – la definizione e il ruolo di questi prodotti in una società consumistica (il termine è di comodo, p. 10) ante litteram – si sviluppa nell’analisi della seconda parte del libro, dopo che, nella prima, diversi capitoli hanno trattato ciascuno la storia di uno dei “prodotti popolari”. La maggior parte delle poche immagini – molte locandine, rare, ma altrettanto mendaci, le fotografie – si trova nei capitoli dedicati ai due prodotti portabandiera: la radio “Volksempfänger” e la “Volkswagen”.
Alla squadrata radio in bakelite è dedicato il capitolo più lungo, essendo questo l’unico prodotto popolare davvero realizzato e venduto obtorto collo da tutte le aziende di settore. Una forma convenzionale creata da un ingegnere ora dimenticato: questo oggetto in apparenza anonimo era carico di simbologie, a partire dal nome VE 301, dove la cifra sta per il 30 gennaio, la data delle elezioni ‘vinte’ da Hitler nel 1933; era anzi la metafora dell’omino venuto dal nulla quale era stato il ‘Führer’ prima dell’ascesa al potere.
Dalla radio si passa agli alloggi popolari, al televisore, al frigorifero fino alla colonia per le vacanze: è König che per la prima volta presenta questi oggetti come un sistema di status symbol, in un doppio senso i simboli di uno stato (nazionalsocialista), in cui il carattere popolare più che un fine era diventato marchio, marca, misura illusoria del diktat propagandistico. Lo stato non si impossessava di strutture per collettivizzarle, come era accaduto in Russia, ma creava desideri e bisogni finalizzati a una qualità della vita superiore – degna della “razza nordica”.
Tali prodotti erano a loro volta al centro di campagne pubblicitarie apposite, ma, come tutti i prodotti di marca, non erano accessibili a tutte le tasche oppure, come nel caso della pianificazione degli alloggi popolari, erano stati previsti per il dopoguerra (!). Pure per la prima volta è illustrata qui, semplice come un’equazione, la ragione del fallimento del sogno della società consumistica nazista.
Sebbene il guadagno che uno stato totalitario cerca di ottenere dalla propaganda non si quantifichi mai economicamente (e per giunta Hitler non dava al denaro nessun valore), l’assenza di un piano finanziario in Germania non permise né di canalizzare verso il profitto l’autarchia né di porre un limite agli investimenti in imprese belliche e propaganda (è noto quali immense somme di denaro sia costato lo sviluppo della Volkswagen). Ciò impedì non solo la realizzazione dei prodotti in sé – e per questo la storia del design ignora la loro vicenda, iniziata cronologicamente dove termina quella del Bauhaus e, dal punto di vista dello sviluppo del prodotto, diametralmente opposta – ma la creazione della vasta clientela che il regime si aspettava. Scritto in maniera diretta ed eloquente (cosa rara in fatto di tedesco accademico – ma altrettanto raro è, come da ammissione dell’autore, un professore universitario che ricerca per conto suo invece che demandare il lavoro al suo entourage – è questa forse una forma di individuale confronto di König con il passato?) questo ‘racconto’ concentra moltissimo materiale documentario – ad esempio da archivi come AEG, Philips, DaimlerChrysler, Robert Bosch, oltre a vari archivi federali – e bibliografico, citandolo in maniera oculata e accattivante.
Le citazioni brevi sono complementari a ogni passo della narrazione, conferiscono un tono conciso e serrato; allo stesso tempo non si tratta di passi spesso incontrati nell’immensa letteratura sui miti del nazionalsocialismo. Poche parole, dell’autore o dalle fonti, già bastano a delineare un nuovo complesso tematico, magari uno poco trattato come il controverso atteggiamento verso la società statunitense degli anni Trenta, presa a modello (p. 223) o detestata alla stregua dei bolscevichi (p. 131), certamente non ignorata da Adolf Hitler. I prodotti popolari ricordano il motto “Comunità, Identità, Stabilità” vigente nello stato creato da Aldous Huxley nel romanzo Il mondo nuovo del 1932 – anche se gli archivi non danno certezza su ulteriori legami in questa direzione.
Sono tanti, quindi, i motivi per avvicinarsi, anche dal di fuori dei confini tedeschi, alla storia dei “prodotti popolari” qui raccontata e del fallimento del programma ideologico alla base della loro diffusione postulato già nel titolo del libro. L’Italia familiarizzò con la Volkswagen con il nome di Maggiolino, ma in Germania questo mezzo, con la voglia di ricostruzione e forse senza la Vergangenheitsbewältigung come priorità, mantenne il suo nome e divenne paradossalmente simbolo del miracolo economico tedesco dell’immediato dopoguerra, quasi un simbolo degli aspetti positivi (sic, p. 308) del regime nazionalsocialista che ne aveva venduto il sogno.
In questo racconto così compatto e in se stesso conchiuso, che, scorso come un romanzo, si frena in conclusione con un riassunto che ne ricorda il carattere ‘diligente’, manca forse una cosa sola: un accenno a un parallelo tra la propaganda dei prodotti popolari e altri livelli di propaganda nazionalsocialista: ad esempio la lettura della Volkswagen come una versione popolare (!) dei bolidi dalla linea aerodinamica che sfrecciavano irraggiungibili sul Nürburgring o a Monza proprio in quegli anni. Ma questa è un’altra storia.
Donatella Cacciola Assistente museale a Bonn, Germania
