L’avventura di Libeskind

di Gianni Pettena

Breaking Ground. Un’avventura tra architettura e vita Daniel Libeskind, Sperling & Kupfer, Milano 2005 (pp. 275, € 19,00)

Anche in questo suo scritto, come in altre occasioni, Daniel Libeskind dichiara ripetutamente l’avversione ad un’idea della disciplina che guardi soprattutto alla quantità della produzione e a un concetto malinteso di professionalità, mentre sottolinea l’importanza di operare al di là di ogni procedura consueta, cercando di penetrare, attraverso l’architettura, in un mondo di mistero, di passione e di avventura. Le dinamiche del costruire si collocano ormai, a suo dire, in un ambito che guarda alla storia sociale e politica più che a ogni necessità linguistica o funzionale, e la totalità della sua opera affronta perciò, necessariamente, una molteplicità di problematiche, che tuttavia presenta una logica di indirizzo, di percorso. Anzi, l’interesse sta per lui proprio in questo percorso più che nei singoli progetti, poiché se le finalità sono indeterminate, e non ancora chiaramente conosciute, è soprattutto la coerenza di questo procedere che dà sostanza a ciò che è soltanto immaginato e rende possibile ciò che non è ancora costruito.

Nel testo, Libeskind riesce felicemente a restituire la misura del rapporto tra la personale vicenda autobiografica e le conseguenti riflessioni e scelte compiute nei confronti dell’architettura, a cui dimostra di esser giunto attraverso complessi e diversi percorsi, di vita, così come di studio e di pensiero. Figlio di immigrati polacchi, giunto ragazzo a New York dopo un soggiorno in Israele, approderà all’architettura abbandonando sia la formazione musicale che l’intenso interesse per il disegno per seguire l’ammonizione della madre che “l’architettura è un lavoro pagato, oltre a una forma d’arte” e che “si può sempre fare arte con l’architettura, ma non si può fare architettura con l’arte” : una scelta consapevole di un ‘mestiere’ dapprima vissuto a lungo come una continua sperimentazione e speculazione teorica, nella ricerca e nell’insegnamento, fino al concorso e all’incarico per il Museo Ebraico di Berlino per il quale egli giungerà a definire l’architettura come “l’arte del compromesso”, facendo riferimento con questo ai lunghissimi tempi (in quel caso 12 anni) necessari al progettista per compiere l’opera senza rinunciare allo spirito e alle intenzioni del progetto.

La descrizione degli eventi di quegli anni viene narrata nel dettaglio nel libro, per questa realizzazione come per il concorso per la ricostruzione di Ground Zero, e per altri lavori ormai tipici di un linguaggio formale per cui i critici non trovano definizioni al di là della semplice descrizione delle linee spezzate, delle lame di luce, dei muri che sfidano ogni criterio di ortogonalità, dal Denver Art Museum all’Imperial Art Museum di Manchester, dalla nuova ala del Victoria and Albert Museum di Londra fino al Royal Ontario Museum e alla recente proposta per la riqualificazione dell’area della Fiera di Milano, qui ampiamente illustrata.

Considerato maestro nel creare edifici che riflettono le caratteristiche del proprio tempo, da lui intimamente comprese e interpretate attraverso una personalissima spiritualità, Libeskind afferma a proposito della sua architettura: “Sono ispirato dalla luce, dal suono, da spiriti invisibili, dalla netta coscienza del luogo e dal rispetto per la storia. Siamo tutti plasmati da un insieme di realtà e forze incorporee, e per avere un’eco spirituale, gli edifici devono rispecchiarle”. Raramente egli descrive i propri edifici in modo analitico ma piuttosto, come ha scritto Paul Goldberger (The New Yorker, 15.9.2003), “presenta il suo lavoro come se fosse una cosa fatta da un altro, che lui vede per la prima volta trovandola fantastica”.

Cerca, in altre parole, di narrarne la storia in modo entusiasta e partecipe, le idee, le emozioni, il significato delle metafore e come queste si traducono in gesto d’architettura. Più che descrivere le strutture e l’articolazione funzionale dei molti musei progettati, preferisce per esempio dire che “un museo non è soltanto un contenitore che deve essere riempito di tesori, ma un luogo dove le persone devono interrogarsi sui loro futuri spazi” così come, nei molti dibattiti pubblici seguiti alla presentazione dei progetti per Ground Zero, non ha mai illustrato la sua proposta nel dettaglio ma piuttosto le motivazioni concettuali e simboliche che l’hanno ispirata, nella convinzione che questa dovesse essere compresa non come un’espressione dell’ego dell’architetto quanto delle aspettative della gente.

Racconterà perciò della sua discesa nell’enorme cratere dello scavo fino al muro di contenimento dell’Hudson, che il progetto lascia a vista come riferimento storico e simbolico, di come abbia riletto la Dichiarazione di Indipendenza, la Costituzione e le poesie di Walt Whitman; mostrerà la sua Freedom Tower alta 1.776 piedi vista dal mare accanto alla Statua della Libertà, quale immagine contemporanea della sua prima impressione di ragazzo tredicenne alla vista della skyline di New York. Non monografia ma, come recita il sottotitolo, “un’avventura tra architettura e vita”, questo testo ripropone l’interesse di Libeskind per una maniera di comunicare le intenzioni e il significato dell’architettura secondo un suo, personale approccio che ha spesso diviso la critica, suscitando anche aperta opposizione.

Se alcuni cioè guardano a questa volontà di presentare il suo lavoro attraverso elementi simbolici, spirituali e inafferrabili come ad un nuovo linguaggio che reinterpreta il proprio tempo alla luce delle esperienze culturali e degli avvenimenti storici del secolo appena trascorso comunicando un’idea di architettura che mira alla “liberazione dello spazio” (Marc Schoonderbeek), altri, come lo stesso Goldberger, lo accusano di parlare il linguaggio dei sentimenti del “middle american”, oppure ironizzano, come Robert Stern quando afferma che “Daniel è un predicatore, e questo mi rende sempre un po’ nervoso”.

E anche Peter Eisenman, che è stato suo maestro alla Cooper Union e che dedica molta attenzione al Museo di Berlino di Libeskind nel suo corso di Princeton, ha impietosamente commentato che egli “da oscuro sperimentatore si è trasformato in architetto di grido, e ogni ipotesi è possibile su quello che la storia ne trarrà”.

Gianni Pettena Docente di Storia dell’Architettura all’Università di Firenze

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