Max Bill Arquitecto, 2G, n. 29-30, 2004, Editorial Gustavo Gili, Barcelona (pp. 276, € 25,00)
Il volume Orientamenti nuovi nell’architettura svizzera, pubblicato nel 1970 da Jul Bachmann e Stanislaus von Moss per una collana dedicata alle identità nazionali, apriva con l’immagine del padiglione costruito da Max Bill a Losanna nel 1964, in occasione dell’Esposizione Nazionale Svizzera. La manifestazione, commentavano gli autori del libro, aveva evidenziato un’insanabile contraddizione all’interno del Paese: da una parte si tentava di trasmettere l’immagine di una Svizzera democratica e priva di tensioni sociali, dall’altra parte risultava ormai impossibile nascondere – nel movimentato clima politico europeo degli anni Sessanta – le imbarazzanti questioni del diritto di voto femminile e del destino dei lavoratori stranieri.
Erano soprattutto gli intellettuali svizzeri a chiedere a gran voce un pronunciamento pubblico sul futuro della Confederazione, al di là dei prodotti tipici, della neutralità politica e dell’inviolabilità del segreto bancario. Achtung: die Schweiz: così si intitolava l’opuscolo in cui tre noti esponenti della cultura elvetica, tra cui lo scrittore Max Frisch, laureato in architettura, proponevano la costruzione di una vera e propria “città nuova” alternativa alla pacificante ipocrisia tecnologica dell’Expo di Losanna. Nel rivendicare il diritto al sogno, i nuovi orientamenti formati attorno a queste esperienze mettevano in realtà in crisi i fondamenti stessi della tradizione architettonica moderna, che in Svizzera poteva contare su fedeli custodi di sicura levatura internazionale come Sigfried Giedion, Alfred Roth e non ultimo Max Bill.
L’astro di Max Bill aveva cominciato presto a brillare nel firmamento europeo. Nato a Winterthur nel 1908, Bill frequenta la Scuola d’arte applicata di Zurigo e nel 1927 si iscrive al Bauhaus. L’insegnamento ricevuto a Dessau costituisce senza dubbio la matrice fondamentale della sua opera. Pittore, scultore, architetto, grafico, critico, Bill rappresenta l’immagine dell’artista totale che le avanguardie degli anni Trenta tentano faticosamente di affermare in un’Europa lacerata dalle “difficoltà politiche”, alle soglie delle drammatiche vicende belliche.
Zurigo, dove Bill stabilisce nel 1932 la base della propria attività professionale costruendosi una modernissima casa-studio, diventa il centro di un ampio raggio di relazioni che portano l’artista a Parigi, come membro del gruppo Abstraction-Création, o a Milano, dove il padiglione svizzero da lui allestito per la VI Triennale suscita un forte interesse per l’innovativa capacità di organizzare lo spazio in funzione delle esigenze della comunicazione.
Il campo degli allestimenti espositivi sembra particolarmente congeniale agli esiti multiformi dell’itinerario creativo intrapreso da Max Bill. I progetti per i padiglioni svizzeri alle esposizioni di Parigi (1937) e di New York (1939), alla Biennale di Venezia (1951) e alla Triennale di Milano (realizzato nel 1951), la mostra “Die Gute Form” a Basilea (1949), il padiglione Ulm alla Fiera di Stoccarda (1956), sono lavori in cui Bill testimonia, come scrive Maldonado nella piccola monografia dedicata all’artista svizzero nel 1955, “una coerenza di nuovo tipo, aperta, dialettica: una vera unità plurale”. Questo giudizio di Maldonado, e tutto il discorso relativo al tema dello stile affrontato in quel saggio edito in Argentina, sono ancor oggi una chiave utile per cogliere il senso dell’opera di Max Bill.
Tutto nasceva da un’esperienza molto particolare come quella della Hochschule für Gestaltung di Ulm, la scuola d’arte fondata nel 1949 da Inge Scholl e Otl Aicher, esponenti della resistenza antinazista in Germania. La scuola, costruita da Max Bill tra il 1950 e il 1955 e da lui diretta per un anno, prima delle polemiche dimissioni, troverà in Maldonado l’indiscusso protagonista della sua stagione più eroica. Lo ‘stile’ di Max Bill, spiega Maldonado, “non è né dogmatico né chiuso. È, invece, uno stile coerente, costruttivo, e allo stesso tempo essenzialmente creatore, sempre assistito dalla fantasia e dalla sorpresa. Detto altrimenti: in Bill il desiderio di uniformare non prevale sul desiderio di formare.
Il suo è allo stesso tempo uno stile responsabile e libero. Uno stile dei tempi che si preparano. Perché, contro tutte le previsioni, i tempi futuri non creeranno una cultura ermetica, statica nel tempo”. Ecco allora che a fronte di queste parole, da storicizzare nel particolare clima dell’epoca, un volume che affronti solo l’attività architettonica di Max Bill risulta essere irrimediabilmente privo di quella ‘complessità’ (usiamo il termine con cui Vittorio Gregotti definiva l’opera dell’artista svizzero in un articolo scritto per Casabella-continuità) necessaria per comprendere la sua opera.
È quanto accade con il numero monografico che la rivista spagnola 2G dedica a Max Bill Arquitecto, proseguendo la tradizione degli approfondimenti storici. I testi sono ottimi (di Stanislaus von Moss, Hans Frei, Karin Gimmi, Arthur Rüegg, Jakob Bill), discreta è la documentazione d’archivio (conservato, ma non c’è nota che ne spieghi la consistenza, al Vegap di Barcellona), la campagna fotografica sullo stato attuale delle opere è molto ricca e fin troppo dettagliata. Infine, c’è una corposa antologia di scritti (macchiata solo dall’assenza di una bibliografia) in inglese e spagnolo, ma su tutto il volume pesa una domanda: come è possibile isolare l’architettura dalla rigorosa ricerca sul rapporto tra forma e funzione che Bill ha perseguito durante la sua vita?
Dimenticando i lavori di pittura, scultura, grafica e disegno industriale di Max Bill si viene a perdere di vista anche la parabola creativa di un artista il cui credo fondato sul potere della ‘matematica’ va a infrangersi, a partire dall’esperienza di Ulm, contro quella nuova sensibilità per la dimensione soggettiva che tutta l’Europa, Svizzera compresa, reclamava a gran voce. In questo tempo in cui archiviamo, cataloghiamo, conserviamo al museo tutto ciò che la storia, anche recente, ci ha lasciato, la ricerca storica dovrebbe essere molto più prudente e rendersi conto che non si può leggere il passato con l’abito mentale del presente. Non basta un archivio per scrivere una monografia.
Federico Bucci Docente al Politecnico di Milano