L’ultimo Meier

di Fabrizio Zanni

Richard Meier. Opere recenti, A cura di Silvio Cassarà, Skira, Milano 2004, (pp. 176, € 26,00)

Per comprendere l’architettura di Meier bisogna partire da Le Corbusier, da quei cinque punti della nuova architettura che ci appaiono oggi come assoluti e datati, permeati da un rigore morale applicato all’abitare umano che non ci appartiene più da molto tempo. Meier studia i cinque punti, li applica, li attualizza e soprattutto li rielabora dinamicamente. Essi da imperativo morale divengono parti di un jeu savant che dinamizza la forma architettonica per rapporto alla forma urbana, senza imporre regole assolute all’abitare umano ma, d’altro canto, senza cadere, come accade a molta architettura contemporanea, in uno sterile gioco delle perle di vetro.

Egli afferma infatti: “Le Corbusier ha esercitato una grande influenza sul mio modo di creare lo spazio”. Il corbuseriano plan libre diviene in Meier il supporto di una composizione architettonica aperta, che si esprime in una complessa dinamica dell’intera opera architettonica. Manfredo Tafuri afferma, nel 1981, che “se l’architettura è segno di struttura pura, Eisenman è quello che più di tutti, in America almeno, si avvicina a tale risultato. Se l’architettura è invece un ‘sistema di sistemi’, se i suoi comunicati appartengono a varie aree linguistiche intrecciate ma distinte, è Meier a cogliere la specificità di quell’intreccio”.

Nel progetto per gli alloggi della società Olivetti a Tarrytown la barre razionalista si disarticola disponendosi sul terreno secondo linee curve assecondanti l’andamento del terreno. Lo stesso slittamento di significato dall’unità abitativa razionale e rigida alla forma libera curvilinea è applicata negli alloggi della Cornell University a Ithaca. Questa libertà di utilizzo delle linee curve, in molti casi usate per contrastare facciate rettilinee, come a Barcellona, nella sede del CCCB, sembra rafforzare l’ipotesi, ardita, di un’architettura che si svolge tra i due poli di un distaccato neo-corbusianesimo e di un probabile neo-barocco. Lo stesso Meier affermava, alla consegna del Pritzker Prize “I have always admired the work of Italy’s Baroque masters, especially Gian Lorenzo Bernini’s work at St. Peter’s and his contemporary Francesco Borromini, particularly for their revolutionary use of light and form”.

Sembrerebbe impossibile attribuire connotati barocchi ad un’architettura come la Smith house, edificio-manifesto, stereometria imperfetta racchiusa nel paramento di assi di legno dipinte di bianco, ma se si osserva il fuoco d’artificio del Getty Center, impostato sulla convergenza/divergenza di molteplici assi, punti di fuga, centri di attrazione, l’ipotesi di una transizione, dalle prime architetture private alle architetture del medio e dell’ultimo periodo, può apparire non del tutto infondata. Possiamo approfondire la poetica architettonica di Meier, ovvero la sua costruzione della forma come visione sistemica complessa, utilizzando quattro concetti-chiave: il volume, lo scavo, la superficie, la struttura.

Essi possono, interpretativamente, essere considerati temporalmente consecutivi nel processo di ideazione progettuale. La dinamica del volume attualizza la definizione corbuseriana del jeu savant dei volumi semplici (cubo, cilindro, piramide…) in senso dinamico; il movimento dei volumi accorpati e ruotati rispetto al suolo ed all’orizzonte, come nell’ Athenaeum di New Harmony, definisce una sorta di matrice tridimensionale dell’opera che possiamo considerare come primigenia. Essa riassume nell’atto architettonico i nuclei generatori tratti dal rapporto con il luogo; esso non è mai mimetico ma assume le linee di forza dell’intorno come elementi di generazione della forma interna dell’edificio.

Il Getty Center ne rappresenta un caso paradigmatico. A questo proposito, ci sostiene la chiarezza degli schemi con i quali il maestro accompagna i suoi progetti. Essi testimoniano dell’accurato lavoro di interpretazione e creazione della forma. Nel Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona, che un occhio disattento potrebbe prendere ad esempio di una patente indifferenza localizzativa, si può notare il differente lavoro dei volumi sul lato della piazza, ampio ed assolato, e su quello, ristretto, che si affaccia alla storica Casa de Caritat e come essi contrappuntino differenziatamente la dinamica delle superfici nei due fronti contrapposti.

Lo scavo dello spazio interno, come nello stesso CCCB barcellonese o nella Islip Federal Courthouse di New York, genera una sorta di volume in negativo che porta all’interno una parte dello spazio pubblico esterno. L’operazione non è del tutto originale e lo stesso Corbu l’ha utilizzata per generare i suoi ineguagliabili interni, ma è condotta in modo esemplare e consente la ‘lavorazione’ e la gerarchizzazione del volume complesso. Anche in questo caso gli schemi concettuali del maestro sono assai espliciti. Possiamo indicare due esempi-tipo: un volume sostanzialmente cilindrico, scavato e dunque negativo, genera un paesaggio interno verticale di cui esplicita livelli e posizioni.

Lo stesso volume, dimezzato, in facciata e sull’esterno, determina un’esedra, il cui fascino sembra aver infuenzato, in modi espressivi diversi, Meier come Louis Kahn. Nel secondo esempio una rampa pedonale lineare genera una sorta di replica interna della facciata e dello spazio ad essa adiacente, all’esterno, interiorizzandolo e generando così una sorta di ‘canyon’ verticale (CCCB) che agisce nel modo già descritto. La superficie non è mai semplice in Meier; non è mai neppure pan de verre, sebbene il pannello abbia, nella sua architettura, una qualche importanza.

Nel corso della sua carriera egli sembra aver costruito una sorta di tipologia aggregativa di materiali e strutture di facciata, corrispondenti in gran parte al suo linguaggio architettonico, che, dal primitivo pannello ligneo verniciato di bianco, memoria della americana balloon frame, si è rivolto verso il vetro e l’alluminio smaltato, con la recente eccezione romana del cemento bianco. La pannellatura di facciata riflette il principio modulare di misurazione e proporzione dell’intera architettura e rispecchia il suo rapporto con la luce e l’ombra. La recente Chiesa del Giubileo testimonia della precisa attenzione al rapporto con la luce solare e quella artificiale.

La facciata, con la sua modulazione e materialità, diviene un diaframma che di giorno assorbe e misura la luce naturale, raccogliendo nel contempo le ombre risultanti, mentre di notte riflette all’esterno il suo “paesaggio urbano” interno. La fronte del CCCB a Barcellona riflette di giorno la piazza (senza gli effetti ‘ustori’ di molta architettura americana) e gli edifici circostanti e di notte mostra alle tenebre il suo luminoso interno. La facciata inoltre non è mai piatta bensì multi-planare perché, accogliendo e componendo parti strutturali, verticali ed orizzontali, parti diaframmatiche come i brise-soleil, inoltrandosi nell’interno con le sue strutture portanti, essa articola un complesso gioco di piani e di gerarchie spaziali; lo testimoniano sia la apparentemente lineare Neugebauer House di Naples, Florida che quell’esplosione centrifuga che è rappresentata dal Centro visitatori della Crystal Cathedral di Orange Grove, in California.

Il ruolo della struttura, visibile soprattutto nelle piante e nelle sezioni, esemplari, è quello di mettere a registro il “sistema di sistemi” citato da Tafuri, commisurando il complesso delle operazioni precedenti. L’architettura di Meier non ha nulla di ‘naturalistico’, essa oppone saldamente la cultura, architettonica e urbana, alla natura. I suoi edifici sono prismi complessi costituiti da materia altamente artificiale, sebbene egli non scada mai nel semplicistico high-tech.

Questa posizione lo differenzia sia dai rigidi cultori dell’architettura bio-eco-compatibile sia dai pur nobili propugnatori del pannellato metallico e del grigliato come Koolhaas o Piano. “There’s a difference between what’s natural and what’s man-made. The minute you cut down a tree, it’s no longer organic, you have to protect it with paint or sealer, so you might as well make it what you want it to be. Architecture is not organic, it’s inert, man-made.” Il volume curato da Silvio Cassarà per i tipi di Skira consente un’agevole panoramica sull’opera recente del maestro statunitense, a partire dall’Athenaeum di New Harmony sino al World Trade Center Proposal ed a opere minori dell’ultimo biennio. La struttura del libro, con un breve saggio introduttivo del curatore e molte ben documentate schede delle opere, è comoda ed efficace. Fabrizio Zanni Professore di progettazione architettonica e urbana al Politecnico di Milano

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