La globalizzazione in architettura

di Cristina Bianchetti

Critical Regionalism. Architecture and Identity in a Globalized World, Liane Lefaivre, Alexander Tzonis Prestel, Munich-Berlin-London-New York 2003 (pp. 160, s.i.p.)

In questo studio, la connotazione critica al regionalismo è nel contempo una cautela e un richiamo preciso. La cautela è nei confronti delle incomprensioni che l’uso generico del termine può generare: una presa di distanza dal senso comune per il quale esso definisce un approccio attento al particolare ben delineato e diffidente verso posizioni generalizzanti.

Il richiamo è ad autori come lo stesso Alexander Tzonis, Anthony Alofsin (e, si dovrebbe aggiungere, Kenneth Frampton), ai loro lavori su quelle architetture che hanno saputo mostrare una pacata presa di distanza dal modernismo, pur senza abbandonare gli aspetti emancipatori dell’architettura moderna. Studi molto noti degli anni Settanta, che sembravano già allora aver liquidato del tutto l’idea di regionalismo come modo dello storicismo che ha le sue radici nel XIX, ostinatamente appoggiate a culture architettoniche regionali.

A fronte di quell’atteggiamento, Tzonis, Alofsin (e Frampton) hanno contribuito a chiarire quanto il regionalismo critico fosse un’attitudine segnata dall’importanza conferita al sito, alla topografia, alle condizioni climatiche e a tutti quegli elementi che, come la luce, sono in grado di rivelare il carattere tettonico dell’edificio. Un atteggiamento marginale, ma importante nel cogliere una sensibilità che si è andata definendo in modo sempre più preciso dopo la metà del secolo.

Nella prefazione del libro si cita un episodio specifico, l’invito nel 1978 di Lucius Burckhardt, allora direttore del nuovo Werkbund, a muoversi su questo terreno osservando più da vicino il lavoro di un gruppo di giovani architetti tedeschi che nel mezzo della nuova fase dell’International Style inseguivano un’architettura che facesse perno sui bisogni locali, o meglio, sulle radici, avvicinandosi a quello che oggi chiameremmo forse un approccio sostenibile. Riprendere quei ragionamenti di 25 anni fa non è solo riflesso del tanto parlare che si fa oggi di Luis Barragan, José Antonio Coderch, Dimitris Pikionis, Peter Zumthor, Jorn Utzon o Sverre Fehn.

È la messa in campo di una questione più generale: come sviluppare una strategia progettuale a fronte dell’attuale crisi che relega l’architettura in una scomoda posizione entro obliqui conflitti che contrappongono globalizzazione e internazionalizzazione delle invenzioni artistiche da un lato, identità locale, desiderio di insularità etnica dall’altro? Il problema è cruciale. E certo non si può dire riguardi solo l’architettura (come mostra la ripresa, da parte di alcuni sociologi, di categorie come quella di cosmopolitismo).

L’idea del libro è di provare a ripensare il regionalismo critico sullo sfondo di queste contrapposizioni, riprendendo quel suo carattere laterale, proprio di un atteggiamento che, scriveva Frampton, “tende a prosperare in quegli interstizi culturali capaci di sfuggire alla tensione ottimizzante della civiltà universale”. Ora il punto è che quell’opposizione tra tensione ottimizzante della civiltà universale e luoghi riparati sembra molto più difficile da individuare di quanto non fosse negli anni Settanta.

I luoghi non sono più interstizi, enclaves e sono in molti oggi a sostenere che le “storie sul locale” costituiscono l’unico modo per capire cose sullo spazio generale. Che misurandosi col locale, i linguaggi artistici parlano d’altro. È caduta l’idea (propria della prima modernità) di qualcosa che possa dirsi al riparo da tensioni generali, in grado di ridefinire in un’atmosfera protetta identità ben individuate e congelate. Internazionalizzazione e locale sono mescolati, a vicenda si integrano, modificano, colorano.

Le logiche di riconoscimento non sono più di tipo oppositivo, ma inclusivo. Alla domanda: “Che luogo, situazione, architettura è? Cosa la caratterizza?” non c’è più una sola risposta che rimane identica nel tempo, ma appartenenze diverse. Si scassa dunque il dato di senso comune che la cultura e l’immaginazione culturale (quindi anche progettuale) siano storicamente specifiche e radicate. Quindi, territoriali nel senso antico di questo termine. Affermazioni spesso ripetute (e non esenti da qualche seria implicazione).

Ho insistito su di esse perché a me pare che proprio su questo punto, che gli autori sollecitano fin dal sottotitolo, il loro racconto sia poi semplificato. Le storie che segnano l’affermarsi del pittoresco in Inghilterra, a partire da, come tutti sanno, un solido richiamo ai valori dell’individualismo, si contrapporranno forse all’affermazione di valori generali, al revival di posizioni classiche o universalistiche in Francia e altrove. Ma l’alternanza che mette in gioco pittoresco, classicismo e poi romanticismo, emancipazione, costruzione di identità locali, non può essere fatta giocare per Ruskin, Goethe e allo stesso modo per noi. Siamo veramente in una situazione differente.

Così la rilettura in chiave ostinatamente mumfordiana di tutto il regionalismo critico del dopoguerra agli anni Settanta sembra semplificare proprio questo punto. L’altra strategia tentata dal libro, quella di considerare il presente del regionalismo critico attraverso esempi di architettura contemporanea, pare più aperta. Pure entro una forma discorsiva (quella del repertorio) che induce continuamente a chiedersi chi/perché è dentro, chi/perché è fuori.

È più aperta perché mette in gioco sapientemente alcuni protagonisti dell’internazionalizzazione come Jean Nouvel, Foreign Office, o MVRDV. E lo è per il valore stesso degli esempi illustrati, per la loro capacità di mostrare come l’architettura sappia, in alcuni casi, usare i luoghi e le circostanze a proprio vantaggio, smontando dall’interno ordinamenti simbolici e spaziali, usando lo spazio “a proprio modo”. È in questi esempi che il regionalismo critico torna ad essere una pratica, mobile e scivolosa forse, ma capace di mettere in discussione modelli della storiografia e della critica architettonica.

Cristina Bianchetti Docente di Urbanistica al Politecnico di Torino

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