di Federico Bucci

California Modern. The Architecture of Craig Ellwood, Neil Jackson, Princeton Architectural Press, New York 2002-Laurence King Publishing Ltd, London 2002 (pp. 208)

“Per essere felice non ho mai avuto bisogno che l’architettura fosse sempre lì. Sono felice quando cammino nella quiete maestosa di una foresta di sequoie. Quando guido una Ferrari a tutta velocità. Quando ascolto Bach, Beethoven, Bruce Springsteen, i Dire Straits. Quando rasento le nubi con l’aereo. Quando leggo Whitman, Tolkien, Saint–Exupéry, Kosinski. Quando pianto i fiori. Quando dipingo e scolpisco. Quando gioco con la mia stupenda bambina”. Così parlò Craig Ellwood, il “Cary Grant dell’architettura”.

Classe 1922, texano di nascita, californiano d’adozione, “self-made-architect”, Ellwood è stato il meno americano degli architetti americani. Ma la sua vita è un romanzo degno di una star di Hollywood. E come molte star aveva un nome d’arte: Craig Ellwood era il nome scelto da Jon Nelson Burke.

Il documentatissimo libro di Neil Jackson racconta la storia di questo geniale e riservato deuteragonista dell’architettura contemporanea con dovizia di particolari, utilizzando materiali d’archivio e interviste, così da intrecciare la vita privata di Ellwood (quattro matrimoni, una passione sfrenata per le corse automobilistiche, l’abbandono dell’attività professionale a soli cinquant’anni) alle sue opere architettoniche e pittoriche, fino alla morte avvenuta nel 1992.

La fama di Ellwood si deve al Case Study House Program, l’esperimento edilizio promosso a partire dal 1945 dalla rivista Arts and Architecture diretta da John Entenza. In quell’occasione, le colline del sud della California facevano da sfondo a sobri e eleganti spazi domestici costruiti con struttura in acciaio e tamponature in vetro. Una vicenda straordinaria per la cultura architettonica americana, il cui esito fallimentare, dovuto alla difficoltà di reperire committenti, non ne scalfisce l’immagine d’avanguardia – coraggiosa, finemente intellettuale, politicamente scomoda per epoca e luogo – oggi rivisitata e celebrata con libri e mostre (da “Blueprints for Modern Living: History and Legacy of the Case Study Houses”, mostra aperta al MoCA di Los Angeles nel 1989, fino al monumentale volume Case Study Houses edito da Taschen lo scorso anno, entrambi a cura di Elizabeth A.T. Smith).

Raccogliendo l’eredità delle sperimentazioni costruttive californiane di Neutra, Schindler e Wright, quel programma forniva una soluzione ideale alla riconversione dell’industria bellica. Entenza lo gestì con grande abilità organizzativa. Tra le firme più conosciute invitate a progettare, possiamo citare lo stesso Neutra, insieme a Charles Eames, Eero Saarinen e William Wilson Wurster; mentre Don Knorr, Quincy Jones, Pierre Koenig, Raphael Soriano e Craig Ellwood, coinvolti nella seconda fase avviata nel 1950, rappresentavano le giovani promesse (in ordine d’età si andava dai 43 anni di Soriano fino ai 25 di Koenig).

Ma per completare il quadro dei personaggi di questa avventura è necessario citare il nome del fotografo Julius Schulman (sue le celebri vedute diurne e notturne di molte Case Study Houses) e soprattutto quello di Esther Mc Coy, la voce narrante che contribuì non poco con i suoi scritti, tra cui il famoso libro Modern California Houses del 1962, al successo dell’architettura moderna californiana. E fu proprio la Mc Coy, redattrice di Arts and Architecture e Progressive Architecture, a lanciare Ellwood nel firmamento architettonico. Sua è infatti la monografia dedicata all’architetto, pubblicata in lingua inglese da Bruno Alfieri a Venezia nel 1968, che riportava in copertina uno splendido fotomontaggio della Bridge House disegnata da Ellwood per l’editore e amico italiano: un delicato omaggio a Mies, di cui nel testo vengono motivate ampiamente le ragioni, con tanto di scultura affiancata però da una parete in legno, sullo sfondo di un dolce paesaggio fluviale (lombardo-veneto?). Ma i rapporti di Ellwood con l’Italia, al di là della sua collezione di Ferrari e Lamborghini, non si fermano qui.

I lettori di Domus negli anni Sessanta conoscevano bene le sue opere. Tutte e tre le Case Study Houses realizzate da Ellwood – la n. 16 del 1952-53, la n. 17 del 1954-55 e la n. 18 del 1956-58 – sono pubblicate sulla rivista di Ponti, in contemporanea con Arts and Architecture, rispettivamente nei numeri 291, 320 e 360 degli anni Cinquanta. Quest’ultimo articolo sulla Case Study House n. 18 esalta la “struttura in metallo, composta da unità, prefabbricate, in tubo d’acciaio a sezione quadra (pilastri) e rettangolare (travi), che han potuto essere montate in luogo da soli quattro uomini in otto ore, fissati i diciannove giunti delle travi e le quaranta basi dei pilastri”.

L’ordine e la disciplina della struttura regnano sovrani in questa casa. “Order is basic”, “Discipline is the key word” erano i motti favoriti dei rari interventi pubblici di Ellwood. Ma la rapidità di montaggio della costruzione e la standardizzazione dei suoi elementi danno vita a uno spazio aperto alla libertà individuale, ovvero a un’architettura offerta alle diverse declinazioni del paesaggio.

È ancora una pagina di Domus a offrirci la prova che i pochi e semplici segni della scrittura architettonica di Ellwood, fedelissimo interprete della lezione di Mies ma anche pioniere di quella cultura tecnica che ne rese possibile la felice stagione americana, sono da leggersi come finissimi punti manufatti dispersi nella natura. “Una casa-ponte, di diciotto metri, a cavallo di un canyon”, con questo titolo viene presentato (Domus n. 429, 1965) un disegno di Gerald Horn, collaboratore di Ellwood, in cui una piccola scatola domestica d’acciaio e vetro si nasconde tra le ripide coste del Pacifico. Sembra allora di poter confermare che il segreto di Ellwood, già intuito da Peter Blake, stia nell’aver portato in America quella “estetica del vuoto” tipica della cultura orientale e di quella giapponese in particolare.

Quindi, non il malinconico ‘nulla’ della tradizione occidentale moderna, bensì quel vuoto così sapiente e così espressivo del teatro no, della stanza da tè, del giardino zen. Su quel ‘vuoto’, sospeso su sottili pilastri d’acciaio, separato dal mondo esterno solo da pareti fiduciosamente trasparenti, dove pochi mobili poggiavano su immacolati tappeti di lana bianca, avrebbe dovuto svolgersi la vita quotidiana di un uomo impegnato a vivere il mondo moderno, seguendo i propri ritmi, in una utopica società priva d’ogni conflitto psicologico o sociale. In quel ‘vuoto’, secondo Ellwood, potevi provare, in una serena dimensione famigliare, la felicità di guardare il mare, la terra, o la città, ascoltare “Bach, Beethoven, Bruce Springsteen, i Dire Straits”, insomma vivere pienamente la ragione e il sentimento. Eppure, incredibilmente, arrivato all’apice della carriera, Ellwood compie una svolta radicale: lascia tutto e si ritira in Toscana, a dipingere, con l’ultima giovane compagna.

L’architettura non lo soddisferà più? No, piuttosto una scelta coerente con il proprio stile di vita, ironico, disincantato e sfrenato fino all’eccesso perché lucidamente consapevole della fine di ogni cammino. Così parlò Zarathustra: “Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando”.

Federico Bucci, docente di Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Milano