Alan Fletcher

“Il design non riguarda ciò che fai. È uno stile di vita”

Tra i più grandi rappresentanti della progettazione grafica del secondo dopoguerra e non solo, Alan Fletcher (1931 - 2006) è forse colui che ha trasformato il design in una missione di vita da esercitare con humor, coniugando limpidezza e rigore con un’ispirazione sempre sagace. Un’attitudine, questa, che Fletcher non abbandonerà mai nel corso della sua lunga pratica professionale, dimostrando che è grazie al primato dell’idea e dell’ironia sul virtuosismo che un messaggio si trasforma in un veicolo potente e al tempo stesso accessibile ad un pubblico ampio.

Sono di ampie vedute per quanto riguarda le idee: mettere insieme certi colori potrebbe essere un'idea. Ma ogni lavoro deve avere un'idea. Altrimenti sarebbe come un romanziere che cerca di scrivere un libro senza avere veramente qualcosa da dire.

Nato nel 1931 in Kenia, dove il padre era funzionario pubblico, ritorna con la famiglia in Inghilterra all’età di 5 anni. Appassionato al disegno fin dalla più tenera età – un esercizio che non abbandonerà mai, scettico rispetto al progressivo affermarsi del computer – si iscrive all’università nel 1949, completando la sua formazione in istituzioni universitarie sempre più progressiste, dal Hammersmith Art College, alla Central Art School, fino al Royal College of the Arts. Nel corso di questi anni, Fletcher non avrà soltanto l’occasione di familiarizzare con l’ambiente artistico londinese, ma anche quella di incontrare e stringere relazioni con alcuni tra i suoi partner e complici per le iniziative professionali a venire, tra cui Colin Forbes e Theo Crosby.

È negli Stati Uniti, alla Yale School of Architecture and Design, che Fletcher approda nel 1956 grazie ad una borsa di studio; qui, il giovane grafico ha l’opportunità di entrare in contatto con grandi mentori quali Paul Rand, Josef Albers e Alvin Eisenman, i quali gli procureranno i primi lavori da freelance con le grandi corporation quali IBM e Container Corporation. Il soggiorno americano, considerato da Fletcher come una parentesi scintillante e ottimista rispetto alla provincialità e al grigiore della Gran Bretagna del primo dopoguerra, includerà altri incontri eccitanti, tra cui quello con Leo Lionni, che nel 1958 commissionerà a Fletcher una copertina di Fortune magazine, e con Saul Bass a Los Angeles. Le esigenze del mondo corporate in un’economia in crescita, l’avanzata dello stile pop nelle arti visive, l’eleganza della grafica svizzera nell’interpretazione che iniziava ad affermarsi a New York, rimarranno un marchio indelebile per le attività a venire.

Al ritorno in Inghilterra nel 1959, poco prima che la swinging London esplodesse in tutto il suo fervore, Fletcher ritrova i compagni di studio per dare vita nel 1962 allo studio di progettazione Fletcher/Forbes/Gill, poi tramutatosi in Fletcher/Forbes/Crosby con la partenza di Gill, e quindi confluita in Pentagram nel 1972, a cui si uniranno come soci fondatori anche Kenneth Grange e Mervyn Kurlansky. L’agenzia, che ancora oggi rimane uno degli incubatori più significativi della progettazione grafica a livello mondiale, è tra le prime a sviluppare un modello di collaborazione orizzontale tra designer associati e un rapporto diretto tra designer e cliente.

La nostra tesi è che ogni problema visivo ha un numero infinito di soluzioni; che molte sono valide; che le soluzioni dovrebbero derivare dall'argomento; che il designer non dovrebbe avere nessuno stile grafico preconcetto.

Molti tra i progetti di Fletcher rimangono delle pietre miliari della storia della grafica del Novecento. Risale ai primissimi incarichi con Fletcher/Forbes/Gill la storica collaborazione con Penguin, per cui Fletcher progetterà alcune copertine tascabili che contribuiranno a posizionare la casa editrice trasformandola in un’icona moderna della cultura anglosassone.

Per Pirelli, con cui era entrato in contatto durante un breve soggiorno a Milano con la moglie Paola, Fletcher progetterà uno dei primi poster dove le lettere ricurve – un risultato tecnicamente complesso da ottenere in un’epoca in cui nessun tipo di macchina, né fotografica né digitale, potesse fornire in maniera automatica l’effetto desiderato - mimano l’andamento del pneumatico. Sempre per Pirelli, realizzerà una grafica per gli autobus a due piani, i celebri “doucle-decker” rossi, dove un ironico profilo nero posizionato sotto le finestre mima la presenza dei passeggeri seduti nei posti corrispettivi.

Il logo del Victoria and Albert Museum

Per Reuters, Fletcher progetterà un altro iconico logotipo dove ogni carattere, restituito da una linea punteggiata, ricorda il nastro per telescrivente usata nei sistemi di trasmissione delle informazioni. Il logo del Victoria & Albert Museum, del 1990, rimane uno dei suoi lavori più celebri. Concepito come un simbolo asciutto e definitivo che doveva sostituire una pletora di sottomarchi legati alle differenti sezioni e attività del museo londinese, il logotipo si compone di sole tre lettere in Bodoni dove la A, perduta una delle sue gambe, si lega elegantemente con la E commerciale. Autorevole, memorabile e senza tempo, il logo è ancora utilizzato senza che sia intercorsa nessuna operazione di restyling.

Nel 1992, Fletcher decise di lasciare l’attività di agenzia per dedicarsi alla propria ricerca personale dalla sua casa di Notting Hill, affiancato dalla figlia Raffaella. Un periodo di ricerca nel campo del disegno e della grafica e di collaborazioni per progetti commerciali selezionati che gli lasceranno il tempo di sistematizzare due importanti contributi editoriali oramai assurti tra i grandi classici di settore. Entrambi pubblicati da Phaidon, di cui Fletcher è stato direttore artistico, “Beware Wet Paint” (1994) e “The Art of Looking Sideways” (2001) sono rispettivamente una monografia sul suo lavoro e un’opera omnia di carattere meta-progettuale a cui lavorerà per oltre diciotto anni. Quest’ultima, in particolare, è considerata un contributo seminale nell’esplorazione del rapporto tra la parola e la comunicazione visiva, in cui seguendo il mantra “we don’t think in words” Fletcher ribadirà la fallacia dell’equazione tra pensiero e linguaggio naturale e la preminenza delle immagini nella comunicazione.

Una copertina di Alan Fletcher per Domus del 1994

Risale a questo periodo la collaborazione di Fletcher con Domus; è infatti Vittorio Magnago Lampugnani, direttore dal 1992, ad affidare al grafico inglese la progettazione delle copertine dal gennaio del 1994. L’ironia sottile di Fletcher rilegge icone della storia del design, come la Eames lounge chair rivisitata in forma di collage, ma si apre anche a sintetizzare riflessioni sulla natura e le sfide che affliggono la progettazione.

Tra i molti riconoscimenti ottenuti nell’arco della sua carriera, Fletcher viene onorato della carica di Senior Fellow dal Royal College of Art, che nel corso della cerimonia lo saluta come un “design magician”. Nel 1993 è stato premiato con The Prince Phillip Prize come Designer of the Year. Nel 2006, il London Design Museum gli consacra una mostra monografica dal titolo “Alan Fletcher: Fifty years of graphic work (and play)”; )”; un’esposizione-tributo a cui Fletcher avrà occasione di collaborare per la supervisione, ma che non avrà mai modo di visitare, morendo circa due mesi prima della sua inaugurazione.

Ti viene insegnato a parlare, leggere e scrivere, ma nessuno sembra insegnarti a percepire
Estremi cronologici:
1931 - 2006
Ruolo professionale:
graphic designer, illustratore
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