“Tutti i libri del mondo aspettano di essere letti”. Lo scriveva Roberto Bolaño, ma potrebbe essere il motto di Carlos D’Ercole, quarantenne avvocato con una propensione che il lessico di Domus definirebbe di design (delle parole), ma anche di architettura (delle passioni). E invece l’architettura, il design e l’arte, triangolo alchemico su cui Gio Ponti e Gianni Mazzocchi fecero germinare l’universo concettuale della loro felice esperienza, con D’Ercole c’entrano davvero.
Madrileno y madridista, e dunque selvaggio e sentimentale, per dirla con Javier Marías, D’Ercole nasce in una famiglia che oggi si definirebbe globalizzata: da Beatriz, cresciuta fra giuristi e accademici di calle Serrano, e Stefano, insigne avvocato leccese affermatosi a Roma. Una congiuntura globalizzata, che fino a ieri era borghese, dove la dimensione estetica restava definita nel perimetro del come più che del cosa, dunque le case, le cose, gli amori e i dettagli.
“Sono nato a Madrid, ma cresciuto a Roma, a pochi metri dal Teatro Valle, che ho avuto la fortuna di conoscere dal basso. Portieri, elettricisti, macchinisti erano i miei amici, mi facevano entrare nei camerini di Vittorio Gassman, Paolo Poli, Vincenzo Cerami e gli altri mostri sacri che prima dello spetacolo giocavano con me e mi autografavano i libri. È lì che ho capito che il teatro è tutto tranne che una rappresentazione”. Ma soprattutto è lì che D’Ercole comprende che, se il suo destino è la legge, questa non avrà la dimensione di retorica dei codici. Dopo la laurea alla Sapienza e un dottorato di diritto commerciale alla Cattolica, viene ammesso per un master alla University of Chicago, dove conosce e stringe amicizia con Douglas Baird, che sarebbe stato il mentore di Barack Obama, e segue il corso di Richard Posner, il pioniere della Law and Economics, ma concepisce come un sentiero sulle orme di Philip Roth e Saul Bellow, che avevano studiato proprio a Chicago. Intanto continua a tirare di boxe.
Con queste premesse ci si aspetterebbe una monografia alla Guido Rossi o Piergaetano Marchetti. Invece, nel 2014, D’Ercole esordisce con una biografia di Enzo Cucchi, una storia orale dove il rapporto tra arte e spazio è già presente e ricorda quello dei detective selvaggi, di Bolaño. “Nelle mie passeggiate solitarie rifletto continuamente sul conflitto che vivo fra legge e letteratura, convincendomi che per sanarlo c’è solo quel particolare design delle emozioni che è l’arte. Gli incontri notturni con Enzo Cucchi, grande amico di famiglia che per me è sempre stato uno Schifano senza vizi, è il colpo di fulmine”. Incoraggiato dal successo di critica, soprattutto dell’inner circle familiare, fatto di galleristi, pittori, musicisti che si muovono tra New York, Madrid e Roma, Carlos, approfondisce la cultura crociana ereditata dallo zio. Vittorio Aymone, tra i più grandi penalisti del Meridione, e l’amore per le corride della madre. L’esito arriva con Dizionario Gonzo, autobiografia di un bibliofolle, che alcuni definiscono “anarchica, erotica e libertaria”, ma in realtà corrisponde a un’idea munariana della letteratura, non a caso edita da Aldo Tanchis, uno degli ultimi allievi del maestro milanese di giochi e di prospettive. “Gonzo è un libro che sarebbe piaciuto a Bruno Munari, in effetti, perché racconta i miei livre de chevet fotografati in ambiti particolari della mia casa. Non solo un libro, quindi, ma anche una scena e un progetto di design, animato da uno spirito più artistico e architettonico che letterario. Un progetto fatto di 38 libri che in spagnolo si direbbero raros e in inglese weird. Libri che esprimono un indice nomadico della mia vita ma anche della mia casa. Un libro dove la potenza visiva diventa evocativa e si trasforma in una mappa o, più precisamente, un rendering delle passioni”.
Sta di fatto che l’artista spagnolo Miguel Barcelò, con cui D’Ercole ha l’appuntamento annuale alle corride, gli suggerisce il suo terzo progetto di redesign letterario: il ripescaggio del dimenticato Toro di Jean Cau, non prima però che Carlos riesca a fare ripubblicare una curatela di cui s’inorgoglisce, il memoir di Albert Spaggiari Le fogne del paradiso, il racconto autobiografico di una rapina compiuta “senza armi, senza odio, senza violenza”, come recitava la scritta lasciata sui muri del caveau della Société Générale svuotata dalla banda di marsigliesi comandata da Albert Spaggiari che, catturato, riuscì a evadere rocambolescamente per vivere libero fino alla fine dei suoi giorni.
“La vicenda di Spaggiari va oltre ogni dimensione legale e morale, ponendosi come testimonianza di una vita all’insegna dell’estetica, proprio come quella di Cucchi o del mio amico Barcelò, forse il più grande artista spagnolo vivente. Ma soprattutto è uno studio dettagliato dei piani architettonici, degli esecutivi e della ratio urbanistica che saranno la chiave del successo di quella che viene considerata la più grande rapina del secolo”.
Il primo caffè post pandemia è finito, ma la cerimonia dei saluti è come il senso dell’uscita in teatro, che D’Ercole ha imparato a otto anni essere più importante di quello del debutto. “La letteratura per me è architettura delle parole, è design delle emozioni. Un’influenza familiare, certo, ma penso che sia anche una cosa che mi disse una volta Bruno Bischofberger, il mercante svizzero che lanciò Warhol, Basquiat e Clemente. Bruno chiamò Ettore Sottsass per farsi disegnare la sua casa di Ginevra e alla fine molte cose sembravano di altri designer. Bruno chiese a Ettore se la sua era un’impressione sbagliata. Sottsass rispose: ‘I grandi artisti non copiano, rubano’. Ecco, in realtà la frase non era di Sottsass, ma di Picasso. A me la disse Jeff Koons al mio matrimonio. Spero di riuscirci anche io, un giorno”.
Nato a Madrid nel 1978, Carlos D’Ercole è avvocato e collezionista.
È autore di due libri: Vita sconnessa di Enzo Cucchi (Quodlibet, 2014) e Dizionario Gonzo (1000 e una notte, 2018). Ha curato Le fogne del paradiso di Albert Spaggiari (Oaks Editrice, 2016) e Toro di Jean Cau (Iduna, 2019).