Domus 946 – editoriale

Nel suo primo numero, Joseph Grima si chiede cosa ne sia stato della convinzione che l’architettura potesse migliorare la vita ai grandi numeri. E si appella a Reyner Banham per sostenere che “a costo di sporcarlo, l’Assoluto dell’architettura va riportato in cucina”. #domus1000

L’uscita di #domus1000, in edicola a marzo, è l’occasione per riprendere dall’archivio alcuni pezzi significativi dei direttori che si sono alternati alla guida della rivista dal 1979 a oggi. Questo editoriale è stato pubblicato nell’aprile 2011, sul primo numero della direzione di Joseph Grima.

 

“Il prezzo da pagare per portare l’Assoluto in cucina è sporcarlo” – Reyner Banham.

 

Lima, Perù. È sera e 26 persone sono riunite intorno a un tavolo. Il tono della discussione è grave, ma in linea col tema del dibattito: come affrontare l’emergenza residenziale che incombe su tutta l’America Latina a causa della rapida urbanizzazione in atto. Siamo nel 1968, o forse all’inizio del 1969. Quella riunione, a cui parteciparono James Stirling, Aldo van Eyck, Charles Correa e altri dieci fra i più conosciuti architetti di allora, ha prodotto PREVI (Proyecto Experimental de Vivienda) un tentativo ambizioso e innovativo di mettere le conoscenze degli architetti talentuosi a disposizione degli indigenti urbani dell’America Latina.

Facciamo un salto in avanti di 35 anni, alla metà del 2004. Attorno a un altro tavolo è riunito un gruppo di architetti altrettanto celebri. Siamo a Nanchino e l’oggetto della conversazione è la realizzazione di CIPEA (China International Practical Exhibition of Architecture). La descrizione più accurata di CIPEA è probabilmente quella di parco tematico privato in cui i visitatori vengono incoraggiati a osservare e toccare con mano una ventina di capolavori architettonici concepiti da alcuni dei progettisti internazionali più brillanti di oggi, fra cui Arata Isozaki, Odile Decq, Steven Holl e David Adjaye. In questo mondo di fantasia, alcuni edifici adempiono a una funzione, ma è indubbio che sono stati progettati semplicemente per esistere.
Di fronte alla tentazione di arrendersi a un senso di impotenza, la città offre continue conferme del suo innato vigore, persino di fronte a una crisi senza precedenti.
Tralasciando alcune sorprendenti affinità che legano tra loro queste due iniziative, fra cui la designazione per acronimi di cinque lettere (o la scelta d’accoppiare una dozzina di architetti locali ad altrettanti progettisti internazionali) è evidente che esse sono lontane anni luce l’una dall’altra. Metterle a raffronto è però un esercizio illuminante che mette in evidenza come, nel corso di trent’anni, l’architettura abbia viaggiato verso un drammatico ridimensionamento delle proprie ambizioni. Che ne è stato della convinzione che l’architettura potesse migliorare la vita ai grandi numeri? È possibile che l’architettura sia stata ridotta a specie protetta, costretta a chiedere asilo per salvaguardarsi dalla grettezza e dal sudiciume della realtà?
Questo non significa che ci sia qualcosa di sbagliato nell’architettura espressa da CIPEA; anzi, le sue forme audaci ci ricordano quanto ci siamo avvicinati a realizzare le ambizioni più fantasiose delle avanguardie del Ventesimo secolo. Il problema è su una scala più ampia: nell’era delle bolle ricorrenti e dell’indebitamento endemico, l’ambito urbano coincide soprattutto con una mappatura tangibile di interessi speculativi, ed è ben lontano dall’essere il rifugio dallo squallore che i progettisti di PREVI immaginavano.
Chi progetta oggi può permettersi ambizioni più elevate che non quelle di diventare prigioniero volontario delle riserve d’architettura.
Di fronte alla tentazione di arrendersi a un senso di impotenza, la città offre continue conferme del suo innato vigore, persino di fronte a una crisi senza precedenti. Come nel caso della Torre Confinanzas, un grattacielo concepito come smaccato emblema del boom economico e petrolifero venezuelano. Lasciata incompiuta e abbandonata per un decennio, la sua forma ha iscritto nello skyline di Caracas il segno indelebile degli eccessi della finanza. Ma in un’azione di redenzione spontanea, oggi la torre ospita 2.500 disperati, vittime di quella diseguaglianza economica che essa voleva celebrare e intensificare.
Chi progetta oggi può permettersi ambizioni più elevate che non quelle di diventare prigioniero volontario delle riserve d’architettura. L’ambito urbano deve tornare a essere un progetto incompiuto, ricolmo di infinite possibilità. A costo di sporcarlo, l’Assoluto dell’architettura va riportato in cucina.
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