La conservazione del patrimonio storico impazza sulle pagine delle riviste di design d'avanguardia e nell'offerta didattica delle nuove facoltà d'architettura alla moda (Strelka) è argomento di conversazione nei forum online e nelle affollate cene mondane. Ma come ha fatto di preciso la conservazione a tornare alla ribalta e quali occasioni offre all'architettura contemporanea?
Alla Biennale di Venezia dell'anno scorso, con tipica tempestività e un titolo degno di un vilain cinematografico della lotta libera messicana (Cronocaos), Rem Koolhaas ha affrontato il "famigerato" tema della conservazione con il suo infallibile strumentario di fatti concreti, accozzaglie intenzionali e retorica tronfia. Ha definito il 2010 come il punto di "perfetta intersezione" di due tendenze architettoniche: conservazione e distruzione.
La conservazione per Koolhaas non è un argomento inedito. Nel 2004 ha pubblicato un breve scritto intitolato Preservation is Overtaking Us ("La conservazione ci sta sopraffacendo"). Insieme con Cronocaos questo testo riassume le posizioni dell'architetto in materia, che possono essere schematicamente delineate così: 1) L'interesse alla conservazione nasce dalla costante ossessione del passato. 2) La conservazione dà agli architetti la possibilità di restare inerti. 3) Oggi tutto è suscettibile di conservazione.
Fino a che punto queste affermazioni, elaborate quattro anni prima dell'attuale disastro economico – praticamente al culmine del boom – sono ancora valide?
1. L'ossessione del passato
La fioritura di interesse e la riscoperta dell'importanza della conservazione in architettura non nascono da un'"ossessione del passato", come afferma il sommario di Cronocaos, ma dalla prudenza verso il presente e dalla preoccupazione per l'immediato futuro.
La recessione ha allontanato molti architetti dalla costruzione e li ha costretti all'inattività. I momenti di incertezza spesso inducono a fare una pausa e a riflettere con attenzione su che cosa si debba o non si debba fare, su che cosa tenere da conto e che cosa scartare. Coincidenza vuole che questo sia anche il punto centrale della conservazione in architettura. Nel senso più profondo la conservazione è una strategia perfetta per i momenti di transizione radicale: non nasce solo dalla paura e dalla nostalgia, ma anche dall'istinto di sopravvivenza (mai sentito parlare di autoconservazione?)
2. Inerzia
La conservazione è davvero un fatto di inerzia, "un'architettura che non fa nulla" (Preservation is Overtaking Us), come sostiene Koolhaas? In certo qual modo la conservazione contrappone due attività specifiche (la distruzione e la costruzione), ma non c'entra con il "non fare nulla". La conservazione richiede memoria, studio, discussione e magari lotta. La conservazione può vedere contrapposte distruzione e costruzione, ma arriva sempre a una ricostruzione: degli edifici, della loro storia, delle loro caratteristiche, del loro contesto. In questo senso la conservazione è un fatto di ricerca, di documentazione, di interpretazione e di scoperta quanto di conservazione fisica.
Forse è ora che gli architetti si facciano carico di dar vita a prospettive critiche, innovative e solide di ricostruzione del passato (soprattutto il passato recente). Forza! Recuperate! Raccogliete! Scavate! Documentate! Buttate in faccia le questioni importanti a chi ci ha portati a questo punto: immobiliaristi, finanzieri, politici, sedicenti modelli di vita professionale e sedicenti guru.
Guardatevi intorno: migliaia di appartamenti vuoti e miserabili nelle periferie di ogni città. Cumuli di detriti edilizi generati da progetti incompiuti e cumuli di carta che documentano transazioni ambigue e affari sottobanco. Abitazioni fatte in serie e microscopiche ville padronali da poveracci abbandonate nel deserto come ruderi Maya. Torreggianti scheletri di complessi lasciati a metà dell'altezza progettata. Gli osceni, vacui scavi delle fondamenta dei grattacieli falliti, in affamata attesa di un totem che non li riempirà mai.
Nei contesti di crisi la conservazione architettonica – degli edifici ma anche delle infrastrutture, degli archivi, dei progetti scartati o abbandonati nonché di altre minuzie e documenti effimeri – diventa uno strumento indispensabile di scoperta critica, politica e storica. Il valore storico, in questo senso, trascende il merito formale dell'architettura. La conservazione richiede una presa di distanza dalla nostalgia e dalla superficialità: deve essere fredda, clinica e combattiva.
Un appello alla consapevolezza, non all'inerzia.
3. Conservare tutto?
Se davvero "la conservazione ci sta sopraffacendo", se non è più un'attività retroattiva, ma proattiva, se "tutto ciò che abitiamo è suscettibile di conservazione", allora il punto critico non è che cosa conservare, ma se si debba conservare tutto. In un momento in cui la conservazione non riguarda più solo gli edifici ma "l'esperienza umana in quanto tale" (Jorge Otero-Pailos) l'intento di conservare tutto appare deprimente, ai limiti dell'assurdo.
Dobbiamo conservare tutto? Secondo Koolhaas no: sia Preservation... sia Cronocaos propongono delle alternative: un "codice a barre" di città a strisce di spazio alternate a caso che "possono essere conservate per sempre o sistematicamente abrase", o un insieme di linee guida per l'obliterazione di quella che AMO definisce "Spazzatura Universale Insignificante": "parti del patrimonio culturale o naturale che sono insignificanti o transeunti e quindi vanno demolite per favorire la crescita e lo sviluppo dell'umanità nel suo insieme..." (Designboom). Possono essere soluzioni da discutere, materia di riflessione, ma non praticabili. La conservazione non può essere lasciata al caso e il fatto è che, in certi casi, va conservata perfino la spazzatura, perché non ci sta bene e ce lo dobbiamo ricordare. I prodotti abbandonati o scartati della cultura imprenditoriale o ufficiale possono sembrare insignificanti ma non sono mai privi di senso e di indicazioni.
Conservare le rovine del contemporaneo non è una missione romantica. Architetti e conservazionisti dovrebbero avere in mente la semplice ma profonda osservazione di Kevin Lynch: "I rifiuti sono pieni di informazioni" (Wasting Away. An Exploration of Waste: What It Is, How It Happens, Why We Fear It, How To Do It Well, San Francisco, Sierra Club, 1990, 79). È necessario un attivo, pressoché immediato impegno nella conservazione (o almeno nella documentazione, nell'analisi e così via) per salvare i segni che stanno nei ruderi dell'attuale disastro edilizio e trovare i modi per uscirne. Se non si riesce a raggiungere alcun genere di accordo su che cosa abbia un valore e che cosa non ce l'abbia, e se la "morsa simultanea della conservazione e della distruzione sta distruggendo il senso dell'evoluzione lineare del tempo" (Biennale di Venezia 2010), e sta stratificando passato, presente e futuro con la velocità del lampo, forse abbiamo bisogno di cominciare a chiederci come conservare tutto, fino a che punto e con quali strategie.
È forse giunto il momento che, invece di cullarsi in utopie ingenue o dedicarsi ad acrobazie formali, le pratiche sperimentali e digitali dell'architettura siano destinate a usi migliori: alla progettazione di meccanismi di conservazione e di scoperta, attraverso la ricostruzione digitale, l'archiviazione e la tutela, mettendo in luce processi produttivi e atti legali, con la realizzazione, in base alle comunità costruttive, di archivi d'architettura, di registri dello spazio accessibili, di fondi permanenti di memoria digitale e altro. È solo un'idea.
Mario Ballesteros è giornalista e ricercatore. Vive a Barcellona. Sporadicamente pubblica sul blog Mañanarama