10 club che hanno cambiato come balliamo, ci divertiamo e amiamo

10 club che hanno cambiato il modo di ballare e divertirsi: Domus ripercorre il rapporto tra clubbing, design e cultura giovanile in dieci tappe fondamentali.

1. Studio 54 – New York L’epitome della discoteca nel mondo, lo Studio 54 è stato tutto ciò che ci si aspetta da un club: eccesso, mondanità, esclusività, cavalli bianchi in pista e gigantesche torte di compleanno. Aperto sulla 54a strada di New York, da cui prende il nome, lo Studio era un vecchio teatro di posa di cui il club ritenne tutta la spettacolare teatralità. Aperto nel 1977 su intuizione di Steve Rubell e Ian Schrager e allestito nel tempo record di sei settimane con un investimento da $400,000, lo Studio 54 durò - come molti altri locali leggendari - pochissimo, chiudendo i battenti già nel 1980. A consacrarne il mito è stato, senza dubbio, l'incrocio unico per i tempi di gente comune e del jet set mondiale garantito da una door selection imprevedibile basata esclusivamente sullo stile degli avventori. Capitava così di potersi trovare a ballare fianco a fianco a drag queen o personaggi come Bianca e Mick Jagger, Andy Warhol, o ancora l’étoile Rudolf Nureyev, la stilista Diane Von Furstenberg, Diana Ross e molti altri volti dello showbiz.  Il logo, opera del graphic designer Lesser, riprendendo nei tratti le grafiche dei Roaring Twenties, poi, era più che una dichiarazione di intenti per un rinnovato stile di vita alla Gatsby dell’opulenta New York del tempo.

La celebre door selection dello Studio 54. Foto: John P. Kelly

2. Pacha – Ibiza Il Pacha è uno dei club di fama mondiale tra i più longevi, simbolo di una nightlife accessibile e trasversale, nonché esempio di caparbia imprenditoriale, con il suo indotto di hotel, discoteche franchise e merchandising.   Fondato nel 1967 a Sitges, fuori Barcellona, dai fratelli Ricardo e Piti Urgell. il Pacha si sposta nella sua sede storica nella baia di Ibiza a partire dal 1973. Sono anni in cui l’isola iberica è meta clou, al pari di Marrakech e dell’India, per gli hippy. Ne consegue un locale che incarna lo spirito libero di quella generazione, e che oggi ancora si riesce a respirare sull’isola una volta passata l’alta stagione. Questa attitudine veniva rispecchiata, almeno nel progetto originale, da una struttura il cui décor rimandava esplicitamente agli edifici rurali spagnoli. L’apice per il locale arriva nel primo decennio degli anni Duemila, in concomitanza con l’ascesa di David Guetta e il fenomeno delle t-shirt con il logo delle due ciliege. 

Foto: Pinterest

3. Piper Club – Roma Tanti sono stati i club capaci di segnare la storia del clubbing in Italia e del suo intenso legame con il design e l’architettura. Il Piper, però, merita di essere ricordato come capostipite di un modo nuovo di concepire l’intrattenimento giovanile nel Belpaese, già a partire dalla metà degli anni Sessanta. Inaugurato nel 1965 in un basement di Via Tagliamento su intuizione dell’avvocato e imprenditore Giancarlo Bornigia e sul modello dei locali della Swinging London, il Piper coniugava la musica dal vivo al ballo, in un contesto fatto di installazioni Pop Art e innovativi light shows. Sul suo palco si sono alternati nomi storici della musica mondiale, tra cui Who, Pink Floyd, Sly & The Family Stone, oltre alle icone nostrane Renato Zero e Patty Pravo, che ancora minorenne parte dal locale romano per conquistare le classifiche italiane. Il Piper è inoltre uno dei primi locali a puntare sul modello del franchising, aprendo sedi a Milano, Viareggio e Torino –  quest'ultima forse la più accattivante grazie agli interni progettati da Pietro Derossi (anche all’opera per gli Altro Mondo Studios di Rimini), Giorgio Ceretti e Riccardo Rossi e a un cartellone che virava maggiormente sulle performance artistiche, come quella de Le Stelle di Mario Schifano, supergruppo con cui l’artista romano emula l’esperimento Warholiano dei Velvet Underground. 

Foto: Pinterest

4. Berghain - Berlino Nel passato del Berghain, centrale elettrica di Berlino Est prima, gay club poi, c’è tutta la natura della mecca per gli appasionati della musica techno. Da un lato il fascino di uno scenario post industriale, dai muri spogli e soffitti alti fino a 18 metri sorretti da imponenti pilastri in cemento, dall’altro la trasgressione e la libertà di un locale che sa anche diventare dark room. A alimentarne il mito, una door selection imprevedibile e spietata a cui fa capo l’ormai celebre buttafuori Sven Marquardt, il divieto di scattare fotografie al suo interno e bagni privi di specchi. Il Berghain è fatto per perdersi nella perdizione, anche per un weekend intero, per poi uscirne e risorgere in uno dei quartieri più trendy di quella che un tempo era la metà sovietica della città.  

Foto: Pinterest

5. Woodpecker – Milano Marittima Benché non celebre e iconico quanto altri club della scena Afro e Funky italiana dei Settanta e Ottanta come il Cosmic, il Melodj Mecca o La Baia degli Angeli, il Woodpecker è quello indubbiamente più affascinante dal punto di vista del design, anche per via dello scarso materiale iconografico oggi disponibile. La struttura open air dell’ingegnere Filippo Monti, eretta in una zona boschiva tra la costa romagnola e l’autostrada, è una cupola di cemento con costole rinforzate, aperture ad arco a ritmare gli spicchi e un oculo. Il risultato è un ibrido tra le Bini Shell, il Pantheon e una visione Space Age della cupola del Brunelleschi per Santa Maria del Fiore. La cupola, a sua volta innestata su una piattaforma traforata di cemento posta sopra un lago circolare, era accessibile attraverso delle passerelle in cemento che la collegavano alla terra ferma. Il risultato era un gioco di silhouette in cui il design radicale dialogava con la natura più selvaggia sotto i breaks forsennati di vinili funk e disco. Abbandonata da anni, nel tempo la superficie interna della cupola è diventata tela per i graffiti di Blu. 

Foto: Beatrice Bozzano

6. Haçienda – Manchester L’Haçienda è stato più di un semplice club, dimostrando già dagli anni ’80 che il clubbing –seppur demonizzato – può essere strettamente legato al mondo della cultura, diventandone esso stesso parte. Il locale, aperto nel 1982, infatti vedeva il fondamentale contributo creativo e, soprattutto, finanziario di personaggi di spicco della pop culture britannica del tempo, quali il grafico Peter Saville, i New Order e Tony Wilson, boss della Factory Records - il nome completo del club non a caso era Fac 51 Haçienda, come se fosse una delle uscite dell’etichetta discografica.  
Il nome stesso era a sua volta un riferimento a “The Hacienda Must Be Built”, motto dell’Internazionale Situazionista incluso nel trattato di urbanistica Formulary for a New Urbanism di Ivan Chtcheglov. Non solo, il bar al pian terreno dell’edificio si chiamava The Gay Traitor, un riferimento allo storico dell’arte britannico Anthony Blunt che durante la Guerra Fredda si era dato al controspionaggio per l’Unione Sovietica.  

Foto: Pinterest

6. Haçienda – Manchester Il club è indissolubilmente legato alla folle stagione dell’Acid House che a cavallo tra ’80 e ’90 trovò nella città inglese, ribattezzata per l’occasione Madchester, la sua capitale. Un sound che diventò così legato all’immaginario a strisce giallo-nere in stile cantiere concepito dall’interior designer Ben Kelly. 
L’Haçienda fu inoltre casa per diversi concerti degli Smiths e per la prima apparizione dal vivo in Regno Unito di Madonna. In seguito al primo decesso da ecstasy in Gran Bretagna avvenuto proprio all’interno del locale nel 1989 e di cui fu vittima un ragazzo sedicenne, la polizia iniziò a puntare gli occhi sul locale che, ormai fuori controllo, capitolò nel 1997 dopo essere stato di fondamentale importanza per il lancio della carriera di artisti quali Oasis, Stone Roses e Chemical Brothers. Stando a quanto dichiarato dal fondatore Tony Wilson, l’Haçienda chiuse con £18 millioni di debiti e un alone di leggenda che vive ancora oggi.  

Foto: Pinterest

7. Blitz – London Il Blitz è stata quella club night che poteva permettersi di rimbalzare Mick Jagger alla porta semplicemente perché non rappresentava più l’ultima tendenza underground giovanile. Almeno secondo la sensibilità dei gestori e avventori della serata, che si svolgeva nella zona dello storico mercato londinese di Covent Garden. Nonostante sia durato un solo anno, dal 1979 al 1980 (e, forse, proprio in virtù di ciò) il Blitz è stato un luogo magico, al cui guardaroba potevi trovare un ancora sconosciuto Boy George, nonché libero palcoscenico per una moda androgina e DIY, i cui autori erano i giovanissimi studenti degli art college londinesi, come il Central Saint Martin’s. Capostipite della scena tanto effimera quanto significativa dei Blitz Kids, questa club night è stata, inoltre, responsabile per aver lanciato la scena New Romantic e la carriera di band come Visage e Spandau Ballet. 

Foto: Pinterest

8. Miniscule of Sounds – Location Varie Nato nel 1998 nel quartiere londinese di Hackney come una performance parodica del ben più celebre locale Ministry of Sounds, Miniscule of Sounds è la più piccola discoteca al mondo con una pista di appena due metri quadrati e un soffitto di 2,4 metri. Il club itinerante compare come discoteca pop-up in varie location attorno al globo, dall’Australia al Giappone passando per il Festival di Glastonbury in Regno Unito.

Foto: Pinterest

9. Whisky A Go-Go – Los Angeles Il Whisky A Go-Go è uno dei più celebri locali sulla Sunset Strip di Los Angeles, strada cardine della night life Hollywoodiana. L’influenza del locale nella cultura pop americana è stata così grande che il go-go dancing, popolarissimo ballo degli anni Sessanta, così come i go-go boots indossati dalle sue ballerine prendono il nome da questo club. Il Whisky è inoltre stato uno dei primi nightclub a incorporare una consolle sospesa sopra il dancefloor e a ospitare una DJ donna. Ancora più folle era invece il suo branch a Sunnyvale, nella Silicon Valley. Inaugurato nel 1965, dopo pochi mesi il locale cambiò nome in Wayne Manor, diventando una discoteca a tema Batman, cavalcando l’incredibile successo della serie TV della ABC con Adam West nei panni del vendicatore di Gotham City. Un concept che negli stessi anni fu ripreso, chissà quanto inconsciamente, dalla Batcaverna di Riccione.

Foto: Pinterest

10. Plastic – Milano Il più internazionale dei club italiani e il più quintessenzialmente milanese tra quelli internazionali, il Plastic è stato, con buona pace di altri storici locali dello Stivale, il club che più di ogni altro ha saputo mettere in dialogo la controcultura italiana con quella straniera, in un cocktail inimitabile di jet set, avanguardia e trasgressione. Inaugurato nel 1980 dalla strana coppia Luciano Nisi e Nicola Guiducci, DJ e creativo, il locale era noto per accogliere la crème della creatività internazionale quando in visita in città, tra artisti, stilisti e musicisti: Andy Warhol, Grace Jones, Keith Haring, Prince, Jean-Paul Gaultier sono solo alcuni dei suoi frequentatori. Nella sua storica sede di Viale Umbria salutata nel 2012, il Plastic si componeva, oltre che della sala principale, di un ammaliante corridoio specchiato e di un club nel club, l’intimo Juke Box Hero. Versatile nei generi proposti, dagli esordi New Wave alla transizione verso l’House e l’Hi-Nrg, ma anche punto di riferimento per la comunità queer, il Plastic ha avuto la capacità di farsi palcoscenico dei dirompenti volti e suoni della creatività giovanile in costante evoluzione. Oggi, la sua nuova incarnazione è un brillante esempio di ricollocazione degli spazi che, pur conservando l'ethos del club e il concept dei suoi interni, ne rilancia il ruolo all'interno della mutata geografia sociale milanese.

Foto: Mirko Albini

Nell'ultimo weekend di novembre 2021 il Cocoricò di Riccione si prepara a riaccendere le luci della sua piramide, una struttura che sia per il suo design che per la sua levatura musicale, tra performance di Leigh Bowery e celebri DJ – tra cui dei giovanissimi Daft Punk, costretti dal pubblico locale a lasciare la consolle a suon di fischi in favore dei resident – ha fatto la storia del clubbing internazionale.

Un settore che nonostante sia a lungo stato denigrato dalla cultura ufficiale, ha in realtà segnato la storia Occidentale degli ultimi cinquant’anni. Le discoteche sono state terreno fertile per la sperimentazione architettonica e musicale, instaurando un proficuo dialogo tra i due ambiti, arrivando a influenzare fenomeni generazionali e a nutrire tutta quella cultura pop oggi venerata in una sbronza di retromania. 

Seppur diversi per genere musicale e periodo storico, i club qui raccolti hanno saputo rappresentare dei primati e degli assoluti tanto in merito all’impatto sulla cultura giovanile che nel mondo del design, creando una linea di demarcazione tra un prima e un dopo del modo di vivere il ballo. 

Immagine di apertura: Cocoricò, Rimini.

1. Studio 54 – New York La celebre door selection dello Studio 54. Foto: John P. Kelly

L’epitome della discoteca nel mondo, lo Studio 54 è stato tutto ciò che ci si aspetta da un club: eccesso, mondanità, esclusività, cavalli bianchi in pista e gigantesche torte di compleanno. Aperto sulla 54a strada di New York, da cui prende il nome, lo Studio era un vecchio teatro di posa di cui il club ritenne tutta la spettacolare teatralità. Aperto nel 1977 su intuizione di Steve Rubell e Ian Schrager e allestito nel tempo record di sei settimane con un investimento da $400,000, lo Studio 54 durò - come molti altri locali leggendari - pochissimo, chiudendo i battenti già nel 1980. A consacrarne il mito è stato, senza dubbio, l'incrocio unico per i tempi di gente comune e del jet set mondiale garantito da una door selection imprevedibile basata esclusivamente sullo stile degli avventori. Capitava così di potersi trovare a ballare fianco a fianco a drag queen o personaggi come Bianca e Mick Jagger, Andy Warhol, o ancora l’étoile Rudolf Nureyev, la stilista Diane Von Furstenberg, Diana Ross e molti altri volti dello showbiz.  Il logo, opera del graphic designer Lesser, riprendendo nei tratti le grafiche dei Roaring Twenties, poi, era più che una dichiarazione di intenti per un rinnovato stile di vita alla Gatsby dell’opulenta New York del tempo.

2. Pacha – Ibiza Foto: Pinterest

Il Pacha è uno dei club di fama mondiale tra i più longevi, simbolo di una nightlife accessibile e trasversale, nonché esempio di caparbia imprenditoriale, con il suo indotto di hotel, discoteche franchise e merchandising.   Fondato nel 1967 a Sitges, fuori Barcellona, dai fratelli Ricardo e Piti Urgell. il Pacha si sposta nella sua sede storica nella baia di Ibiza a partire dal 1973. Sono anni in cui l’isola iberica è meta clou, al pari di Marrakech e dell’India, per gli hippy. Ne consegue un locale che incarna lo spirito libero di quella generazione, e che oggi ancora si riesce a respirare sull’isola una volta passata l’alta stagione. Questa attitudine veniva rispecchiata, almeno nel progetto originale, da una struttura il cui décor rimandava esplicitamente agli edifici rurali spagnoli. L’apice per il locale arriva nel primo decennio degli anni Duemila, in concomitanza con l’ascesa di David Guetta e il fenomeno delle t-shirt con il logo delle due ciliege. 

3. Piper Club – Roma Foto: Pinterest

Tanti sono stati i club capaci di segnare la storia del clubbing in Italia e del suo intenso legame con il design e l’architettura. Il Piper, però, merita di essere ricordato come capostipite di un modo nuovo di concepire l’intrattenimento giovanile nel Belpaese, già a partire dalla metà degli anni Sessanta. Inaugurato nel 1965 in un basement di Via Tagliamento su intuizione dell’avvocato e imprenditore Giancarlo Bornigia e sul modello dei locali della Swinging London, il Piper coniugava la musica dal vivo al ballo, in un contesto fatto di installazioni Pop Art e innovativi light shows. Sul suo palco si sono alternati nomi storici della musica mondiale, tra cui Who, Pink Floyd, Sly & The Family Stone, oltre alle icone nostrane Renato Zero e Patty Pravo, che ancora minorenne parte dal locale romano per conquistare le classifiche italiane. Il Piper è inoltre uno dei primi locali a puntare sul modello del franchising, aprendo sedi a Milano, Viareggio e Torino –  quest'ultima forse la più accattivante grazie agli interni progettati da Pietro Derossi (anche all’opera per gli Altro Mondo Studios di Rimini), Giorgio Ceretti e Riccardo Rossi e a un cartellone che virava maggiormente sulle performance artistiche, come quella de Le Stelle di Mario Schifano, supergruppo con cui l’artista romano emula l’esperimento Warholiano dei Velvet Underground. 

4. Berghain - Berlino Foto: Pinterest

Nel passato del Berghain, centrale elettrica di Berlino Est prima, gay club poi, c’è tutta la natura della mecca per gli appasionati della musica techno. Da un lato il fascino di uno scenario post industriale, dai muri spogli e soffitti alti fino a 18 metri sorretti da imponenti pilastri in cemento, dall’altro la trasgressione e la libertà di un locale che sa anche diventare dark room. A alimentarne il mito, una door selection imprevedibile e spietata a cui fa capo l’ormai celebre buttafuori Sven Marquardt, il divieto di scattare fotografie al suo interno e bagni privi di specchi. Il Berghain è fatto per perdersi nella perdizione, anche per un weekend intero, per poi uscirne e risorgere in uno dei quartieri più trendy di quella che un tempo era la metà sovietica della città.  

5. Woodpecker – Milano Marittima Foto: Beatrice Bozzano

Benché non celebre e iconico quanto altri club della scena Afro e Funky italiana dei Settanta e Ottanta come il Cosmic, il Melodj Mecca o La Baia degli Angeli, il Woodpecker è quello indubbiamente più affascinante dal punto di vista del design, anche per via dello scarso materiale iconografico oggi disponibile. La struttura open air dell’ingegnere Filippo Monti, eretta in una zona boschiva tra la costa romagnola e l’autostrada, è una cupola di cemento con costole rinforzate, aperture ad arco a ritmare gli spicchi e un oculo. Il risultato è un ibrido tra le Bini Shell, il Pantheon e una visione Space Age della cupola del Brunelleschi per Santa Maria del Fiore. La cupola, a sua volta innestata su una piattaforma traforata di cemento posta sopra un lago circolare, era accessibile attraverso delle passerelle in cemento che la collegavano alla terra ferma. Il risultato era un gioco di silhouette in cui il design radicale dialogava con la natura più selvaggia sotto i breaks forsennati di vinili funk e disco. Abbandonata da anni, nel tempo la superficie interna della cupola è diventata tela per i graffiti di Blu. 

6. Haçienda – Manchester Foto: Pinterest

L’Haçienda è stato più di un semplice club, dimostrando già dagli anni ’80 che il clubbing –seppur demonizzato – può essere strettamente legato al mondo della cultura, diventandone esso stesso parte. Il locale, aperto nel 1982, infatti vedeva il fondamentale contributo creativo e, soprattutto, finanziario di personaggi di spicco della pop culture britannica del tempo, quali il grafico Peter Saville, i New Order e Tony Wilson, boss della Factory Records - il nome completo del club non a caso era Fac 51 Haçienda, come se fosse una delle uscite dell’etichetta discografica.  
Il nome stesso era a sua volta un riferimento a “The Hacienda Must Be Built”, motto dell’Internazionale Situazionista incluso nel trattato di urbanistica Formulary for a New Urbanism di Ivan Chtcheglov. Non solo, il bar al pian terreno dell’edificio si chiamava The Gay Traitor, un riferimento allo storico dell’arte britannico Anthony Blunt che durante la Guerra Fredda si era dato al controspionaggio per l’Unione Sovietica.  

6. Haçienda – Manchester Foto: Pinterest

Il club è indissolubilmente legato alla folle stagione dell’Acid House che a cavallo tra ’80 e ’90 trovò nella città inglese, ribattezzata per l’occasione Madchester, la sua capitale. Un sound che diventò così legato all’immaginario a strisce giallo-nere in stile cantiere concepito dall’interior designer Ben Kelly. 
L’Haçienda fu inoltre casa per diversi concerti degli Smiths e per la prima apparizione dal vivo in Regno Unito di Madonna. In seguito al primo decesso da ecstasy in Gran Bretagna avvenuto proprio all’interno del locale nel 1989 e di cui fu vittima un ragazzo sedicenne, la polizia iniziò a puntare gli occhi sul locale che, ormai fuori controllo, capitolò nel 1997 dopo essere stato di fondamentale importanza per il lancio della carriera di artisti quali Oasis, Stone Roses e Chemical Brothers. Stando a quanto dichiarato dal fondatore Tony Wilson, l’Haçienda chiuse con £18 millioni di debiti e un alone di leggenda che vive ancora oggi.  

7. Blitz – London Foto: Pinterest

Il Blitz è stata quella club night che poteva permettersi di rimbalzare Mick Jagger alla porta semplicemente perché non rappresentava più l’ultima tendenza underground giovanile. Almeno secondo la sensibilità dei gestori e avventori della serata, che si svolgeva nella zona dello storico mercato londinese di Covent Garden. Nonostante sia durato un solo anno, dal 1979 al 1980 (e, forse, proprio in virtù di ciò) il Blitz è stato un luogo magico, al cui guardaroba potevi trovare un ancora sconosciuto Boy George, nonché libero palcoscenico per una moda androgina e DIY, i cui autori erano i giovanissimi studenti degli art college londinesi, come il Central Saint Martin’s. Capostipite della scena tanto effimera quanto significativa dei Blitz Kids, questa club night è stata, inoltre, responsabile per aver lanciato la scena New Romantic e la carriera di band come Visage e Spandau Ballet. 

8. Miniscule of Sounds – Location Varie Foto: Pinterest

Nato nel 1998 nel quartiere londinese di Hackney come una performance parodica del ben più celebre locale Ministry of Sounds, Miniscule of Sounds è la più piccola discoteca al mondo con una pista di appena due metri quadrati e un soffitto di 2,4 metri. Il club itinerante compare come discoteca pop-up in varie location attorno al globo, dall’Australia al Giappone passando per il Festival di Glastonbury in Regno Unito.

9. Whisky A Go-Go – Los Angeles Foto: Pinterest

Il Whisky A Go-Go è uno dei più celebri locali sulla Sunset Strip di Los Angeles, strada cardine della night life Hollywoodiana. L’influenza del locale nella cultura pop americana è stata così grande che il go-go dancing, popolarissimo ballo degli anni Sessanta, così come i go-go boots indossati dalle sue ballerine prendono il nome da questo club. Il Whisky è inoltre stato uno dei primi nightclub a incorporare una consolle sospesa sopra il dancefloor e a ospitare una DJ donna. Ancora più folle era invece il suo branch a Sunnyvale, nella Silicon Valley. Inaugurato nel 1965, dopo pochi mesi il locale cambiò nome in Wayne Manor, diventando una discoteca a tema Batman, cavalcando l’incredibile successo della serie TV della ABC con Adam West nei panni del vendicatore di Gotham City. Un concept che negli stessi anni fu ripreso, chissà quanto inconsciamente, dalla Batcaverna di Riccione.

10. Plastic – Milano Foto: Mirko Albini

Il più internazionale dei club italiani e il più quintessenzialmente milanese tra quelli internazionali, il Plastic è stato, con buona pace di altri storici locali dello Stivale, il club che più di ogni altro ha saputo mettere in dialogo la controcultura italiana con quella straniera, in un cocktail inimitabile di jet set, avanguardia e trasgressione. Inaugurato nel 1980 dalla strana coppia Luciano Nisi e Nicola Guiducci, DJ e creativo, il locale era noto per accogliere la crème della creatività internazionale quando in visita in città, tra artisti, stilisti e musicisti: Andy Warhol, Grace Jones, Keith Haring, Prince, Jean-Paul Gaultier sono solo alcuni dei suoi frequentatori. Nella sua storica sede di Viale Umbria salutata nel 2012, il Plastic si componeva, oltre che della sala principale, di un ammaliante corridoio specchiato e di un club nel club, l’intimo Juke Box Hero. Versatile nei generi proposti, dagli esordi New Wave alla transizione verso l’House e l’Hi-Nrg, ma anche punto di riferimento per la comunità queer, il Plastic ha avuto la capacità di farsi palcoscenico dei dirompenti volti e suoni della creatività giovanile in costante evoluzione. Oggi, la sua nuova incarnazione è un brillante esempio di ricollocazione degli spazi che, pur conservando l'ethos del club e il concept dei suoi interni, ne rilancia il ruolo all'interno della mutata geografia sociale milanese.