Oslo, After Belonging

Lluís Alexandre, uno dei curatori di “After Belonging” l’edizione 2016 della Oslo Architecture Triennale, ci ha raccontato di come l’architettura sia un processo aperto e interdisciplinare.

After Belonging, On residence, veduta della mostra a DOGA. ph. Istvan Virag
Abbiamo fatto alcune domande a Lluís Alexandre, uno dei curatori della Oslo Architecture Triennale “After belonging” che è in corso con un fitto programma di iniziative collaterali fino al 27 novembre. Ne emerge un processo di selezione sia dei curatori che dei progetti in mostra molto aperto e condiviso da diversi attori.

Simona Bordone: Come siete arrivati alla curatela della Oslo Architecture Triennale 2016?

Lluís Alexandre: Abbiamo risposto a un concorso internazionale per proposte curatoriali lanciato dalla Triennale. Al tempo, due anni fa, tutti noi ci trovavamo a New York ed eravamo tutti in diverso modo legati alla Columbia University, alcuni di noi erano ancora studenti, altri stavano cominciando a insegnare. La cosa interessante è che nessuno di noi aveva in mente con precisione il tema dell’appartenenza ma non appena abbiamo cominciato a parlarne è emerso. E alla fine il progetto è stato selezionato.

After Belonging, la giuria della International Call for Intervention Strategies al lavoro
After Belonging, la giuria della International Call for Intervention Strategies al lavoro

Simona Bordone: Come sono stati selezionati questi progetti?

Lluís Alexandre: Non solo noi ma anche i progetti in mostra provengono da un concorso internazionale. Ne sono arrivati più di 200 che sono stati selezionati da una giuria composta da architetti, esperti di diritti umani e componenti della Triennale e noi stessi. Ma abbiamo avuto davvero un ruolo minoritario in questa selezione. Il vero lavoro come curatori è incominciato dopo, siamo stati i mediatori con le diverse istituzioni coinvolte. Un esempio su tutti il progetto per l’aeroporto: i ragazzi di Bolleria Industrial che hanno fatto il progetto non si erano posti il problema di come ancorare a terra gli oggetti. Beh, ad esempio non si può portare un trapano nella zona di sicurezza! Già questa è stata un’avventura.

After Belonging, il progetto di Bolleria Industrial installato all'aeroporto di Oslo Gardemoen
After Belonging, il progetto di Bolleria Industrial installato all'aeroporto di Oslo Gardemoen

Simona Bordone: Sempre sul processo di selezione, anche la vicenda del padiglione dell’Egitto alla Biennale di Venezia di quest’anno è molto interessante. Il progetto curatoriale è di quattro studenti, due egiziani e due italiani, che hanno vinto il concorso. E questo è il lascito positivo della primavera egiziana, per altri aspetti disastrosa. Certo la Norvegia ha una tradizione democratica ben diversa. Sta cambiando qualcosa nel come si selezionano i progetti curatoriali?

Lluís Alexandre: Direi di sì. Noi ci siamo trovati di fronte a un format, quello della triennale. Sono format diffusi che molte città hanno adottato ma non era strettamente necessario che la nostra proposta, come le altre, venisse vagliata da una giuria di architetti, andava analizzata per quello che è, per il suo contenuto. Ci sono ricerche e letture molto interessanti che se il concorso è molto burocratico – cioè è complesso e costoso presentare il progetto – non riescono ad arrivare.

After Belonging, On residence, veduta della mostra a DOGA
After Belonging, On residence, veduta della mostra a DOGA. ph. Istvan Virag

Simona Bordone: La mostra è divisa in due parti non solo fisicamente ma anche concettualmente, la prima parte, a DOGA, consta di progetti di ricerca pura, mentre l’altra all’Architecture Museum contiene progetti e proposte. Ci spieghi come è strutturata?

Lluís Alexandre: Nella parte dedicata alla ricerca sull’idea dell’appartenenza, i progetti indagano nuovi modi vivere ma anche tecnologie che sono in relazione con il tema. Noi li abbiamo inseriti in quelle che abbiamo chiamato Costellazioni. Ma vorremmo che anche i visitatori facessero i loro liberi collegamenti, anche se questo probabilmente richiede un certo grado di approfondimento.

Nella seconda parte invece ci sono dieci progetti già realizzati che esprimono con chiarezza, a nostro parere, i temi connessi all’idea di appartenenza e che hanno implicazioni dirette con l’architettura. L’aeroporto di Gardemoen è un buon esempio. Quando è stato inaugurato era l’aeroporto di cui si diceva “l’unico in cui si atterra in una foresta”, il che ha implicato un grande lavoro di progettazione del paesaggio, il cui obiettivo era quello di dare una sorta di “nordicità” all’architettura. Oggi ha un’area specifica per i voli negli Stati Uniti, il che implica cambiamenti negli spazi, applicazione di differenti regole doganali e così via. È interessante anche notare che il sito dell’aeroporto è stato costruito su una ex area militare e ai suoi margini sopravvivono degli edifici che oggi vengono utilizzati come aree di sosta per gli immigranti illegali in attesa di espulsione.

After Belonging, On residence, veduta della mostra a DOGA
After Belonging, On residence, veduta della mostra a DOGA. ph. Istvan Virag

Simona Bordone: Come sono strutturate le proposte che emergono dai dieci progetti che avete allestito al Museo di Architettura?

Lluís Alexandre: Sono cinque i progetti a cui seguono delle proposte d’intervento e tutti sono nelle regioni scandinave. L’aeroporto, Kirkenes, a nord al confine tra Norvegia e Russia; il quartire di Torshov con due interventi: la proposta che i richiedenti asilo che ci vivono diventino guide turistiche. Un modo per renderli visibili e contemporaneamente consentire a loro di appropriarsi della città e la proposta di una app rivolta a chi affitta la propria casa e che invece potrebbe ospitare un migrante. Alcuni dei progetti sono collocati proprio sul luogo oggetto della presentazione, come l’aeroporto. Altri al Museo, quello di Copenhagen ad esempio. La vicenda di Christiania, dove modelli alternativi di proprietà erano stati sperimentati molto presto, ha certamente influenzato alcune pratiche contemporanee di condivisione delle case ma anche il modello di condivisione degli oggetti, dove si può affittare qualunque cosa, persino il pettine che potrebbe servirmi in questo momento.

After Belonging. In residence, veduta della mostra al National museum - Architecture. ph. Istvan Virag
After Belonging. In residence, veduta della mostra al National museum - Architecture. Modes of Movement by Ruimteveldwerk (Pieter Brosens, Brecht Van Duppen, Sander Van Duppen, Lene Beelen, Pieter Cloeckaert). ph. Istvan Virag

Simona Bordone: C’è uno stretto rapporto con l’università. Come lo avete gestito?

Lluís Alexandre: L’università di Oslo AHO è un partner, il rapporto è molto stretto. Abbiamo deciso di fare un esperimento pedagogico con regole abbastanza aperte ma chiare con l’obiettivo di lavorare sulle aree di Olso che ne hanno più bisogno in relazione al tema dell’appartenenza. Cioè cercare di capire cosa devono affrontare, quali tematiche e con quale approccio, gli studenti di architettura. Il progetto è stato proposto a diverse università nel mondo, tra queste ad esempio il Sud Africa, che hanno selezionato gli studenti. Ci sono un centinaio di ragazzi che hanno il supporto della città, alloggio, uno spazio per lavorare e partecipano a tutti gli eventi della Triennale.

After Belonging Academy
After Belonging Academy, i gruppi di lavoro sono stati riconfigurat dai 130 studenti in un gruppo auto-organizzato che ha rifiutato di avere la partecipazione della facoltà. Il tema di come intervenire in un contesto come Toyen e Greenland (con la più alta densità di nuovi arrivati da altri paesi a Oslo) è diventato un argomento di intensa discussione che gli studenti hanno rivendicato di voler risolvere da soli

Simona Bordone: Pensi che l’architettura sia una disciplina che basta a se stessa? In che misura interagisce con le altre? E come questo impatta, se lo fa, sull’ambiente costruito, sull’urbanistica?

Lluís Alexandre: Gli architetti sono coinvolti in una serie di processi da molto tempo. Hanno a che fare con questioni legali, con le istituzioni, lavorano con le grandi multinazionali e in quel contesto la disciplina ha voluto mettere al centro l’architetto. Una figura isolata, l’autore, qualcosa di simile all’artista. Ma questa è una visione molto parziale, falsata.

Nel lavoro che abbiamo fatto qui quando qualcuno ha detto “Ma questo è un problema dell’architettura” ci siamo sentiti a disagio. Progettare dei ricoveri (per i migranti n.d.r.) non è sufficiente. Se non si affrontano questioni di ordine economico, politico, se non si affronta il razzismo, un ricovero anche se ben progettato non basta ed è chiaro che l’architettura da sola non può risolvere tutto. Va costruito un processo che coinvolge molte altre discipline e persone.

Non è rivendicando un ruolo centrale all’architetto che si può legittimare l’architettura, cosa che è anche storicamente scorretta.

© riproduzione riservata

fino al 27 novembre 2016
After Belonging
Oslo Architecture Triennale
a cura di: Lluís Alexandre Casanovas Blanco, Ignacio G. Galán, Carlos Mínguez Carrasco, Alejandra Navarrete Llopis, Marina Otero Verzier
Oslo, Norvegia
 

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