The Velvet Underground

Matali Crasset ha realizzato per la mostra The Velvet Underground – New York Extravaganza, alla Philarmonie di Parigi, un percorso espositivo che intreccia sinergie visive e sonore.

The Velvet Underground – New York Extravaganza
Matali Crasset ha organizzato in modo fluido una mole importante di materiale d’archivio che ruota attorno al mitico gruppo dei Velvet Underground degli anni ’60. Ne parliamo in questa intervista incentrata su controcultura, musica e sulla difficoltà di restituire un respiro condivisibile a questo controverso periodo.

 

Ivo Bonacorsi: Ci  puoi raccontare come è nato il progetto? Se non ricordo male avevi già affrontato il mostro sacro Warhol, che è all’origine dell’album con la banana dei Velvet Underground, nella mostra SuperWarhol, curata da Germano Celant al Grimaldi forum una quindicina di anni fa.

Matali Crasset: Anche qui, c’è all’origine la passione dei due curatori. Christian Fevret è un appassionato del gruppo che conosce nei minimi dettagli ma soprattutto nelle sue influenze, fonti e ispirazione e nella relazione controversa con la controcultura americana. Oltre ad essere un esperto della New York di quegli anni. Carole Mirabello è una produttrice di cinema e si è occupata di sviluppare l’enorme quantità di materiale audiovisivo che ruota attorno al gruppo, ma soprattutto di valorizzare le altre fonti cinematografiche preziose per l’esposizione. Capitale si è poi rivelato il contatto diretto che Christian Fevret – che viene dall’esperienza della rivista Les Inrockuptibles – aveva con John Cale, Gerald Malanga ma anche con Jonas Mekas. Si è rivelato essere non solo il cineasta culto che tutti conosciamo ma soprattutto la memoria pura e fusionale con i materiali del suo archivio.

Questa relazione intensa con alcuni dei protagonisti ha ingenerato una forte generosità negli scambi e soprattutto la rivitalizzazione di un progetto che non voleva essere solo un display d’archivi.

Matali Crasset, allestimento della mostra The Velvet Underground – New York Extravaganza, Philharmonie de Paris
Matali Crasset, allestimento della mostra The Velvet Underground – New York Extravaganza, Philharmonie de Paris

Ivo Bonacorsi: Penso che la scommessa sia riuscita. Tuttavia ho avuto l’impressione di trovarmi all’interno di un laboratorio, dove la definizione di sottocultura è stata rielaborata come  a registrazione di un onda sempre meno percettibile. Ho interpretato il tuo disegno dell’evento come un sismografo per le possibilità di ascolto e scoperta della sperimentazione più in generale.

Matali Crasset: La scenografia che ho realizzato è stata letta (in un accezione non proprio positiva) come fosse un’installazione artistica (ride…)

Ivo Bonacorsi: Prenderei questa critica come il migliore dei complimenti. Proprio perché sei uscita dagli schemi…

Matali Crasset: È comunque chiaro che ci sono due zone: una sotterranea dove esporre documenti feticci e materiale anche molto fragile e un’altra che sia uno sguardo, ma forse anche un panorama, sulla città di New York di quegli anni, dal basso. Un luogo anche molto idealizzato, fatta di grafica e proiezioni, una tecnica mista che rende evidenti i contrasti. Poi ho cercato una presenza totemica per le persone che erano all’origine di questa avventura con delle edicole a loro dedicate, alla loro storia privata (di protagonisti) musicisti, artisti, poeti, filmakers, muse. Se noti ho creato queste strutture che sono delle scale per emergere. Comunemente le trovi nelle officine, sulla loro sommità c’è l’icona. Il mito realizzato come lo conosciamo, Lou Reed, Nico e tutti che gli altri che raggiungono la visibilità solo al livello della città. Se noti però abbiamo allargato il campo. Ci non solo i componenti del gruppo ma a tutti coloro che partecipavano dello stesso clima, da La monte Young a Terry Riley, e persino Doug Yule. Ma soprattutto ogni media e tecnica utilizzata all’epoca, dalla fanzine al cinema, dalla performance fino alla pornografia.

Matali Crasset, allestimento della mostra The Velvet Underground – New York Extravaganza, Philharmonie de Paris
Matali Crasset, allestimento della mostra The Velvet Underground – New York Extravaganza, Philharmonie de Paris

Ivo Bonacorsi: L’impressione, almeno la mia, è che non si tratti di una storia pacificata, le tensioni sono ancora presenti tra chi ha poi raggiunto il successo e chi è rimasto personaggio culto.

Matali Crasset: Stiamo parlando di persone che hanno rischiato a tutti i livelli, personali e direi politici. Persone che hanno sperimentato in prima persona dall’uso della droga, alla liberazione dalle convenzioni sociali e sessuali e nello stesso tempo, sono immersi in un’energia collettiva, senza traccia di solitudine in un’apertura totale. Poi ci sono figure complesse come quella di Barbara Rubin, la regista che introduce Warhol alla musica dei Velvet underground. Nell’installazione che Mekas le ha dedicato si legge la nostalgia per questa fluidità, per questi scambi disinteressati e  l’interesse per l’ibridazione delle scene  musicale e artistica. Stiamo comunque parlando di un microcosmo la cui portata sul futuro della musica e dell’arte è decisamente grande ma che resta all’epoca assolutamente sperimentale e non esattamente coronata dal successo.

Matali Crasset, allestimento della mostra The Velvet Underground – New York Extravaganza, Philharmonie de Paris
Matali Crasset, allestimento della mostra The Velvet Underground – New York Extravaganza, Philharmonie de Paris

Ivo Bonacorsi: Se pensi che la prima vera “reunion” dei Velvet Underground arriva proprio alla morte di Warhol. Lou Reed e John Cale si ritrovano al servizio funebre nel 1987 e l’album che ne nasce ha per titolo Song for Drella (un soprannome misto di Dracula e Cenerentola che circolava alla Factory). Però da quel momento il posizionamento è decisamente artistico: nel concerto nel 1992 alla Fondation Cartier, si evidenzia la sensazione che si muovessero in una direzione non esattamente pop, forse più Fluxus.

Matali Crasset: C’è, io credo, un rigetto di fatto dell’America, della sua cultura massificata. I Velvet Underground sono di fatto anti-hyppies ma occorre comunque fornire un contesto. Mi hai detto che non ti piace questa apertura della mostra con America di Allen Ginsberg e io invece amo molto il coraggio dei curatori nel fornire un contesto. Mi piace il muro di montaggi video fatto da Jonathan Caouette all’ingresso con inserti di film di Cassavetes, e in fondo stiamo parlando degli all tomorrow’s parties,  di questa possibilità di permanenza e di estensione. Così come ho ricreato questo spazio “factory” come uno spazio che possa ricordare ma anche essere vissuto in modo non solo onirico. Mi sarei spinta anche più lontano, con atelier di serigrafia, recuperando tecniche dell’epoca e mi piace quest’idea che siamo (o almeno abbiamo cercato) di andare oltre il puro revival. Di quest’avventura e di quel periodo di cui ho solo letto e ascoltato mi piace l’aspetto collettivo, con tutte le tensioni che ciò comportava e comporta. Mi auguro anche che qualcosa di simile continui ad esistere.

Matali Crasset, allestimento della mostra The Velvet Underground – New York Extravaganza, Philharmonie de Paris
Matali Crasset, allestimento della mostra The Velvet Underground – New York Extravaganza, Philharmonie de Paris

Ivo Bonacorsi: Mi ha fatto una certa impressione Jonas Mekas che ha scritto in modo molto spontaneo durante il vernissage su una delle tue strutture “Suddenly it all came back… improvvisamente tutto è ritornato…”

Matali Crasset: È stato un piacere e la conferma di essermi mossa nella direzione giusta, cercando la trascrizione fisica di un luogo mentale.

Ivo Bonacorsi: È di fatto il tentativo di realizzare un’architettura dell’underground. Hai abbandonato un poco i tuoi codici ma hai tenuto duro sulla tua regola di generare sinergie e rispettare gli spazi comunitari.

Matali Crasset: Che i protagonisti come Jonas Mekas, John Cale o Gerard Malanga ci si siano ritrovati bene è forse la migliore delle risposte alle mie inquietudini. Mi sarei aspettata persino delle interazioni più decise. Alcuni bellissimi contributi personali restano molto formalisti ma è giusto così, spostati su di un registro più classicista. Il bel concerto di tributo che di John Cale ha fatto Filarmonica mi piacerebbe entrasse in modo permanente nella mostra. A 50 anni di distanza è ancora materia vivente, con cui confrontarsi.

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