Deyan Sudjic

È Miami il luogo che Deyan Sudjic, direttore dal 2000 al 2003, sceglie per il lancio di #domus1000. Una città che si è evoluta “da luogo di decadenza geriatrica a dinamica capitale latinoamericana”.

I nove, straordinari, autori di #domus1000 presentano se stessi con un autoritratto di poche parole, che ne “condensa” gusti e attitudini in cinque punti: un’architettura, un oggetto di design, un’opera d’arte, un libro e una città. A interpretarne le sembianze è, invece, la colorata sintesi grafica dell’illustratore Massimo Giacon.

 

Brillante opinionista dell’Observer, il flemmatico Deyan Sudjic nasce a Londra, da genitori serbo-croati, il 6 settembre 1952 sotto il segno della Vergine. La sua scrittura vivace, ma al tempo stesso acuta e sempre perfettamente allineata sugli ultimi sviluppi dell’attualità, è connotata da grande capacità di analisi e indole pignola. Al suo fianco alla guida di Domus, c’è Simon Esterson, già sodale compagno nell’avventura di Blueprint che avevano fondato insieme negli anni Ottanta. D’indole schiva, l’attuale direttore del Design Museum di Londra, nonché ex direttore della Biennale di Architettura di Venezia e di “Glasgow 1999”, preferisce il lavoro in solitaria – abolisce le riunioni di redazione, ma non il confronto con i singoli redattori – e, quando è a Rozzano, lo si trova spesso chiuso nella sua stanza a scrivere. La sua Domus, dichiara nel primo editoriale, è “una rivista che vuole riflettere su ciò che accade”. La moda – o, meglio, “il modo in cui la moda crea l’immaginario” – sarà un tema importante della sua direzione.

 

Un’architettura – Non so come descrivere l’ex Commonwealth Institute, progettato in origine dallo studio Robert Matthew Johnson Marshall e inaugurato nel 1962, come momento chiave dell’evoluzione dell’architettura del XXI secolo. E tuttavia ha di fatto un senso che va oltre il significato personale che riveste per me, adolescente che all’epoca stava crescendo a Londra, quando, con il suo “audace” tetto a paraboloide iperbolico, appariva come l’essenza della modernità. Alla fine di quest’anno sarà riaperto come nuova sede del Design Museum, ristrutturato da John Pawson. Rappresenta l’attribuzione di un nuovo significato a un punto di riferimento del territorio e anche una nuova prospettiva sull’atteggiamento da assumere nei confronti del restauro architettonico del passato recentissimo, fatto di materiali poveri, più prossimo al disegno industriale che all’architettura, per il quale né le prescrizioni di William Morris né quelle di Carlo Scarpa in materia di gestione degli edifici storici hanno grande incisività.

 

Un oggetto di design – Naturalmente lo smartphone realizzato a Cupertino da gruppi di programmatori e di ingegneri è l’oggetto più tipico del nostro tempo, quello che ci ha trasformato tutti in schiavi, in perenne colloquio con il mondo, continuamente visibili e controllati, un artefatto che ha causato l’estinzione di massa di tanti altri oggetti che un tempo tenevamo per preziosi, dalle macchine fotografiche ai sistemi musicali. Ma io sono abbastanza nostalgico da continuare a essere affascinato dalla creazione di straordinari artefatti fisici. L’Airbus 380 non ha l’austera autorevolezza di un Boeing 747 nella sua vista frontale, né la terribile bellezza di un drone militare. Ma il gigantesco mostro del cielo che è l’A380 ha una storia in qualche modo faraonica. Per ottenere questo straordinario risultato, sono stati ricostruiti ponti, riconfigurate strade e costruiti imponenti stabilimenti in tutta l’Europa.

 

Un’opera d’arte – L’installazione di Dan Flavin a Marfa, in Texas. La ristrutturazione di un’ex carcere militare statunitense nel Texas, vicino alla frontiera messicana, a opera di Donald Judd, è durata numerosi anni e comprende architettura, design e opere d’arte dello stesso Judd, oltre a una serie di installazioni di altri artisti da lui apprezzati. Insieme costituiscono una specie di meta di pellegrinaggio dell’arte del XX secolo, una specie di remota Stonehenge, che fornisce un’esperienza dell’arte molto diversa da quella offerta dai musei cittadini, sopraffatti da folle che fotografano se stesse di fronte all’opera. Qui spiccano le opere di Judd, ma altrettanto notevole è la serie di abbaglianti opere luminose di Flavin.

 

Un libro – Il museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, che prima di dedicarsi alla letteratura ha studiato architettura, ha concepito questo romanzo come una specie di catalogo di un museo immaginario, che più tardi ha materialmente realizzato a Istanbul. Il museo dell’innocenza, in quanto romanzo, a prima vista sembra il racconto di una sfortunata storia d’amore ma in realtà è un’indagine sul senso e sul significato del collezionismo tutt’altro che ingenua. È poi, come molti degli scritti di Pamuk, un’acuta intuizione delle particolarissime caratteristiche urbanistiche di Istanbul, la città dove è cresciuto.

 

Una città – Miami. Come la Shanghai degli anni Trenta, che era una città europea trapiantata nel bel mezzo della Cina, Miami negli ultimi vent’anni si è trasformata in una città che sta in America, ma non le appartiene. Miami si è evoluta da mite luogo di decadenza geriatrica a dinamica capitale latinoamericana. La sua nuova architettura, dal Perez Museum di Herzog & de Meuron al progetto di Rem Koolhaas per Miami Beach, sta creando una condizione urbana ibrida che sfrutta al meglio lo scenario del mare tropicale. Godetevela finché potete: il livello del mare qui sta salendo molto in fretta, in questo nostro mondo in globale riscaldamento.
© riproduzione riservata

Deyan Sudjic
Domus
: 2000–2004
Consulente alla direzione: Stefano Casciani
Creative director: Simon Esterson
Inviato speciale: Pierre Restany

Articoli più recenti

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram