Hot desking nel 1995: un ufficio di Gaetano Pesce

Amato e odiato, il metodo dell’hot desking era già popolare nella New York degli anni ’90. Dall’archivio Domus il progetto del designer italiano per l'agenzia pubblicitaria Chiat/Day. 

Questo articolo è apparso originariamente su Domus 769, marzo 1995.

Dicono che l’ufficio stia cambiando, anzi, l’ha già fatto. La sede della Chiat/Day al trentottesimo di un anonimo piano di un anonimo grattacielo situato sulla punta di Manhattan, ha subito un radicale intervento di ristrutturazione ad opera di Gaetano Pesce. Il cliente, di quelli competenti e illuminati che ogni progettista sognerebbe di avere è quello Jay Chiat che già aveva commissionato, a Los Angeles, l’edificio con portale-binocolo a Frank Gehry, Claes Oldenburg e Cosjie van Bruggen. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il cambiamento apportato dal progetto di Pesce non è formale ma sostanziale. Si tratta di una vera e propria rivoluzione caparbiamente voluta da Jay Chiat in entrambe le sedi dell’agenzia. Incontrandosi felicemente con una creatività (quella di Pesce) rigogliosamente figurativa e priva di inibizioni, l’intuizione, o meglio, l’ostinata volontà di realizzare la ‘visione’ di Jay Chiat ha dato luogo a un ambiente sorprendente e chiaramente animato da un intento interpretativo e sperimentale che ben traduce in termini di progetto quello che finora era confinato al miglioramento o alla fantasticheria.

L’idea è questa: l’ufficio, da territoriale, diventa virtuale. In altre parole, un’organizzazione tradizionale del lavoro d’ufficio, inteso quale tempo acquistato, è perciò sorvegliato tramite la disposizione del personale in spazi appositamente costruiti, individualmente assegnati, coi quali identificarsi e in relazione ai quali strutturarsi gerarchicamente, viene sostituita da un approccio più individualistico e responsabilizzato al lavoro da compiere. Non più costretti a condividere uno spazio e un unico tempo di lavoro, i singoli possono scegliere le modalità secondo le quali assolvere ai propri compiti grazie alla mobilità consentita dall’innovazione tecnologica. Eliminato l’impaccio fisico della carta da raccogliere, conservare, archiviare, del filo elettrico o telefonico, del posto fisso di lavoro ingombro di oggetti inamovibili, ci si accorge che, di essenziale, resta ben poco: una seggiola, un piano di appoggio, un telefono cellulare, un computer col quale collegarsi al resto del mondo.

Detto così, sembra il solito scenario falsamente avveniristico cui, sotto sotto, si stenta a credere immaginandolo lontano dalla quotidianità. Tuttavia, nell’intervento di Pesce questo si è tradotto in spazio fluido e complesso, dotato di quelle qualità eminentemente ‘urbane’ che caratterizzano percorsi e luoghi di sosta, scorci prospettici e punti d’incontro con una sicurezza dipendente più dall’uso quotidiano che dall’applicazione di concetti astratti.

Gaetano Pesce, agenzia pubblicitaria Chiat/Day. New York, 1995. Foto Donatella Brun. Domus 769, marzo 1995.
Gaetano Pesce, agenzia pubblicitaria Chiat/Day. New York, 1995. Foto Donatella Brun. Immagine da Domus 769, marzo 1995.

La prima impressione, entrando dal disimpegno sul quale affacciano direttamente gli ascensori (le cui porte inquadrano da subito un pavimento colorato e già pieno d’indicazioni) è, inaspettatamente, di gran ordine e calma diffusa: qualcuno lavora concentrato al computer inserito su carrelli mobili, altri camminano su e giù telefonando con voce sommessa,  persone sedute su bassi divani o appoggiate agli angoli di costruzioni eseguite nei materiali più diversi (feltro, plastica, legno, video-cassette) discutono e gesticolano.

L’atmosfera è straordinaria, e lo si avverte subito: non si tratta affatto di una ‘decorazione’ un po’ curiosa o chiassosa della quale consumar presto la novità, anzi, questo è forse l’aspetto meno importante.Quel che conta è il luogo, la tensione ben regolala tra il dentro e il fuori, l’operazione -riuscita- dell’aver saputo creare un nucleo interno abbastanza ‘pesante’ da poter controbilanciate la sfida offerta dal panorama mutevole ed esteso che dallo skyline di Manhattan sfuma nel New Jersey. E questo nucleo è stato ottenuto con l’addensamene di alcune aree funzionali, raggruppate per temi e staccate dalle pareti esterne, lasciate libere e disponibili a un flusso peripatetico che trasforma gli spazi perimetrali in un fantastico cammino di ronda, quasi una successione di logge in cui ritagliarsi ogni giorno un diverso spazio per lavorare. 

L’ufficio, da territoriale, diventa virtuale. In altre parole, un’organizzazione tradizionale del lavoro d’ufficio (...) viene sostituita da un approccio più individualistico e responsabilizzato al lavoro da compiere.

Il percorso circolare si snoda tra continue sorprese, a volte visive (come nella zona degli armadietti personali, affollata delle facce che di tali armadietti costituiscono le ante), altre percettive e legate alla costante sperimentazione di una complessità spaziale che si esprime in continue compressioni e decompressioni degli spazi d’attraversamento: affollati di postazioni mobili di lavoro, scanditi dalle porte imbottite delle ‘cellule’ private, aperti all’aggregazione informale della caffetteria e decongestionati nel vuoto deliberato della ‘piazza’, caratterizzata soltanto da una gradinata longitudinale, mobile anch’essa.

Una volta ritirato il materiale necessario dalla bocca spalancata che costituisce lo sportello di un apposito store, si può utilizzare una qualunque delle postazioni di lavoro installate su carrelli mobili opportunamente progettati e dirigersi nel luogo preferito, oppure occupare una delle salette private più appartate. Sale per audiovisivi (i cui mattoni di costruzione sono costituiti da normali videocassette o calchi di telecomandi), conferenze, lavoro di gruppo, o esclusivamente dedicate all’elaborazione di campagne specifiche per uno specifico cliente, completano le tipologie disponibili, ironicamente segnalate dalle semplici icone che il lavoro di Pesce ha da tempo fatto proprie. 

Gaetano Pesce, agenzia pubblicitaria Chiat/Day. New York, 1995. Foto Donatella Brun. Immagine da Domus 769, marzo 1995.

Così, sul pavimento complessivamente composto secondo il disegno di una faccia decostruita a colpi di chiazze dai colori saturi, compaiono lettere, simboli, frecce e quant’altro la fantasia suggerisca e la rapida tecnica del ‘fresco’ su resina consenta. L’apparire del feltro e delle imbottiture in stoffa contribuisce idealmente a contenere gli effetti di riverbero acustico e a rinsaldare una ‘domesticità’ che ben si presta a far sentire ciascuno a proprio agio senza per questo rinunciare a combinarsi con la dimensione più urbana dell’organizzazione complessiva. Se uno degli obiettivi del progetto, nelle figure dell’architetto e del committente, consiste nel saper interpretare e governare le istanze e i suggerimenti del proprio tempo per provare a dar forma, con quel che si conosce, a quello che non si era ancora mai visto, questo luogo reale dell’ufficio virtuale pare saperlo indicare con una freschezza così tipica del “nuovo mondo” che perfino la Statua della Libertà, laggiù in basso, sembra accettare con grazia un suo ruolo da icona definitiva.

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