Dall’archivio: Brasilia, lezioni di urbanità

In Domus 1049, Fulvio Irace ripercorre la storia di Brasilia attraverso l’archivio e le impressioni di Cesare Casati, che per la rivista realizzò un ampio reportage, pubblicato nel 1966.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1049, settembre 2020.

“L’impressione che si ha arrivando a Brasilia è quella che può avere un uomo del passato”, scriveva Cesare Casati in un ampio reportage su Domus 434 del gennaio 1966: 24 pagine di fotografie da lui stesso scattate, come corredo di un taccuino di viaggio nella nuova capitale del Brasile a sei anni dalla sua nascita.

“A Brasilia – annotava – si ha la sensazione continua di essere come su un’isola. Una continua linea orizzontale, lontana, azzurra, corre dietro la città: un orizzonte immenso come il mare. La città sorge isolata su un enorme terreno piano, e non nasconde questa sua condizione eccezionale, ma anzi la valorizza, in ogni suo punto; tutta la sua architettura è orizzontale, ed è sempre ‘staccata’ dal suolo, in modo che attraverso gli immensi pilotis sia sempre presente in lontananza l’orizzonte della grande pianura. L’urbanistica è tale da farci avere, sempre, la coscienza geografica del luogo in cui si trova. E, una volta tanto, dell’epoca in cui si vive”.

Il commento era positivo, ma attraversato alla fine dall’ombra di un interrogativo inquietante sulle sue possibilità di sviluppo o di autodistruzione. Per comprendere il messaggio implicito in questa frase tanto sfuggente bisogna ricostruire il contesto in Italia (e in Europa) in cui era stato accolto quest’evento straordinario. Brasilia era una capitale costruita nel deserto nell’arco di appena tre anni (quelli intercorsi tra il bando di concorso nell’autunno del 1956 e l’inaugurazione del 21 aprile 1960) all’insegna di una modernità che se da un lato riaffermava la vitalità dei principi eroici del primo Modernismo, allo stesso tempo li integrava in forme inedite, sensibili al clima, al territorio, all’ottimismo estetico della “seconda età della macchina”.

A Brasilia, infatti, l’urbanistica era fondativa di una visione insieme elementare e complessa: basato sul gesto assiomatico di due assi in croce (quasi un cardo e un decumano tracciati sulla terra rossa del deserto), il Plano Piloto di Lúcio Costa si avvaleva della plastica sensuale di Oscar Niemeyer, autore di un esperimento sulla monumentalità che non poteva non richiamare i coevi esempi di Chandigarh e Dacca. La riscoperta dell’urbanità nell’era postbellica aveva incrinato il mito del primato dell’urbanistica e rilanciato il tema del ‘monumento’ come cuore della città ed espressione di valori formali in cui rappresentare il rifiuto dell’autoritarismo delle dittature e una nozione di popolo come comunità aperta. Ma come l’architettura di Kahn fu accolta in Italia da diffidenza (e in alcuni casi da aperto rifiuto), anche quella di Niemeyer non riuscì a evitare l’accusa di formalismo: paradossale, in fondo, per un Paese che, con la sua adesione al ‘Neoliberty’, si era guadagnato la reprimenda di Reyner Banham per “la ritirata italiana dal Movimento moderno”.

Se Rogers si era rifugiato nell’eloquente silenzio di Casabella, Bruno Zevi l’aveva condannata senza appello su L’Architettura. Cronache e storia (numero 104, giugno 1964): “I fatti hanno travalicato i nostri timori... la città dei funzionari, artificiosamente vestita dalle decorazioni strutturalistiche di Niemeyer, si è trasformata in una prigione sbarrata dalla foresta vergine. [...] Evento tragico, degno di essere meditato dagli urbanisti di tutto il mondo”.

Brasilia (e il Brasile) oggi non sono purtroppo quelli di Juscelino Kubitschek de Oliveira e l’inadeguatezza della sua classe dirigente non ha dovuto attendere la tragedia della pandemia Covid-19 per dimostrare come non possa esistere urbanità senza il sostegno di adeguate politiche di sviluppo della società. Non a caso, il discredito di cui gode oggi la parola ‘urbanistica’ è frutto sia di una riduzione della visione generale a tecnica astratta, sia di un’invasione della logica del real estate globalizzato che considera la città come ‘logo’ visuale di un messaggio esclusivamente pubblicitario.

A 60 anni dalla fondazione, Brasilia può essere guardata da un nuovo osservatorio: quello delle citta capitali del XXI secolo. Astana (oggi Nur-Sultan, capitale del Kazakistan, sorta per decreto presidenziale nel 1998), Dubai (miraggio strappato al mare come resort per le élite della globalizzazione), Pudong (città nella città di Shanghai a partire dal 1993) e altre ancora ci spingono a riguardare oggi Brasilia come una città ideale rinascimentale, costruita attorno a un centro monumentale contornato dall’uniformità delle grandi Superquadre. Gli sviluppi caotici del piano dimostrano forse l’illusione dell’architettura, ma soprattutto la delusione della politica, incapace di distinguere tra urbanità e urbanismo.

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