Il discorso di Gropius all’inaugurazione della Scuola di Ulm

A inizio 1956, Domus pubblicava il discorso con cui pochi mesi prima il padre fondatore della Bauhaus aveva aperto i lavori della Hochschule für Gestaltung (HfG), che ne raccoglieva dialetticamente l’eredità. Lo riproponiamo nella versione integrale.

II 2 ottobre 1955 si è ufficialmente inaugurata ad Ulm, Germania, la “Hochschule fuer Gestaltung” fondata e diretta da Max Bill: la “università per la forma”, la scuola-officina, con cui Bill coraggiosa­mente riprende le concezioni e l’opera della Bauhaus di Gropius.
Pubblichiamo il discorso, inedito, che Gropius ha tenuto nell’occasione, memorabile documento del suo pensiero e della sua fede, in Domus n. 315.

Sono passati quasi trent’anni dal giorno in cui io mi trovai in una situazione analoga a quella, og­gi. del professor Max Bill: e cioè quando si inaugurò a Dessau nel 1926 l’edificio da me progettalo della Bauhaus.
Ma la mia partecipazione e ade­sione alla solennità d‘oggi han ragioni più profonde: poiché noi possiamo dire che il lavoro iniziato allora nella Bauhaus, e i principi allora formulati, hanno trovalo qui ad Ulm la loro nuo­va patria tedesca, e la possibilità di un loro ulteriore organico sviluppo. Se questa istituzione ri­marrà fedele al suo compilo ideale, e se le vicende politiche saranno più stabili che a l’epoca della Bauhaus. la nostra “Università per la Forma” potrà espandere la sua influenza oltre i confini della Germania, e con­vincere il mondo della necessità e dell'importanza dell'opera dell'artista per la prosperità di una vera democrazia progressiva. In questo io vedo il suo grande compito educativo.
Nella nostra epoca, dominata dalla scienza, l’artista è stato qua­si dimenticato: spesso anzi deri­so e ingiustamente giudicato un non necessario elemento di lusso nella società. Quale nazione ci­vile oggi sostiene l’arte come elemento integrante, essenziale della vita del suo popolo? La Germania ha oggi, per ragione della sua stessa storia, la grande chance culturale di riportare in luce il valore dell’elemento ma­gico di fronte a quello logico del tempo nostro, cioè di legittimare nuovamente l'artista reinserendolo nel moderno processo pro­duttivo.
La ipertrofia delle scienze ha soffocato il magico nella nostra vita: il poeta e il profeta, in questo straordinario fiorire della logica, son divenuti i figli disa­mati di una umanità troppo pra­tica. C’è un detto di Einstein che illumina la nostra condizio­ne: “Strumenti perfetti e mete confuse caratterizzano il nostro tempo”.

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Walter Gropius. (Foto: Studio Casali)

Il clima spirituale che predomi­nava alla fine del secolo serbava ancora un carattere statico e con­chiuso, sorretto da una fede in apparenza incrollabile nei cosiddetti “valori eterni”. A questa fede è subentrato il concetto di una universale relatività, di un mondo in ininterrotta metamor­fosi. E i mutamenti profondi che ne son risultati per la vita umana sono avvenuti tutti, o quasi, nello sviluppo industriale di questo ultimo mezzo secolo, più profondi in questo breve pe­riodo che in tutti i secoli della storia insieme. Tale vorticosa ra­pidità ha posto molti uomini in uno stato di infelice turbamento, ha rovinato i nervi di molti. La naturale pigrizia del cuore uma­ni non può resistere a questo ritmo. Dobbiamo dunque armarci contro le scosse inevitabili, fin­tanto che la valanga delle cogni­zioni scientifiche e filosofiche ci trascina con tanta furia. Quello di cui noi evidentemente abbia­mo più urgente necessità, per puntellare il nostro mondo mal­fermo, è un nuovo orientamento” nel campo culturale. Le idee sono onnipotenti: l’indirizzo spi­rituale dell’evolversi umano è stato sempre determinato dal pensatore e dall’artista. le cui creazioni sono al di là della fi­nalità logica. Ad esse noi dob­biamo tornare a rivolgerci, e fi­duciosamente, altrimenti la loro influenza non sarà efficace: solo dove gli uomini accolsero spontaneamente la semente di una nuova civiltà, essa poté metter radici e diffondersi: solo dove le nuove forze creative poterono penetrare ogni aspetto della vita umana, si poté formare quella unità e quella coerenza di atteg­giamenti della società che corri­sponde alla sua più autentica na­tura. e che è indispensabile al suo progresso.

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Gli esterni della Hochschule für Gestaltung, Ulm. In Domus n. 315, febbraio 1956

Fino a poche generazioni fa il nostro mondo sociale era un’uni­tà equilibrata, nella quale ognuno trovava il suo posto, e le radicate consuetudini avevano il loro na­turale valore. Arte e architettura si sviluppavano organicamente con lenta crescita, erano aspetti accettati della civiltà. La società era ancora un tutto. Ma poi, coll’iniziarsi dell’età della mac­china, l’antica forma sociale si disgregò. Gli strumenti stessi del progresso civile finirono per dominarci. Invece di affidarsi ai prìncipi morali, l'uomo moderno venne sviluppando una mentalità da “Gallup Poll”, per così di­re, fondata meccanicamente sulla quantità invece che sulla qualità e diretta all'utile immediato più che al bene dello spirito. Persi­no coloro che si opposero a questa monotizzazione della vita, a questo impoverimento dello spirito, vennero spesso fraintesi, e anche sospettati di voler pro­prio ciò che avevano deciso di combattere. E potrei forse pren­dere esempio da quanto è avvenuto alla nostra Università, e dalle mie stesse esperienze. Non sol­tanto durante la Bauhaus ma per tutta la vita ho dovuto difender­mi personalmente dal rimprovero di “razionalismo unilaterale”. Non avrebbe dovuto bastare la scelta dei miei collaboratori alla Bauhaus. con le loro doti artistiche intuitive, per evitarmi tale accusa? Ma no, e anche Le Corbusier fu esposto a quel mede­simo ingiusto sospetto, perché egli predicava il verbo della “macchina per abitare”. E si può immaginare un architetto più dotato di senso magico di lui? Ciononostante, i pionieri di que­sto movimento moderno vennero falsamente presentati come fana­tici seguaci di principi rigidi e meccanici, come esaltatori della macchina, al servizio di una “nuova oggettività” ed indiffe­renti ormai ad ogni valore umano. Poiché io stesso sono uno di quei mostri, mi stupisco, post factum, che si sia riusciti ad esi­stere appoggiandoci ad una così miseranda base.
In realtà, naturalmente, il nostro primo problema era quello di umanizzare la macchina, e di cer­care una nuova coerente forma di vita, problema che è quello anche di questa Scuola, e che le costerà analoghe lotte.

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Hochschule für Gestaltung, Ulm. Veduta degli interni. In Domus n. 315, febbraio 1956

Intesa a porre i nuovi mezzi al servizio di fini umani, la Bauhaus attuò allora il tentativo di dimo­strare in pratica quel che andava predicando: la necessità di un nuovo equilibrio fra le esigenze pratiche e quelle estetico-psicolo­giche del tempo. Ricordo i prepa­rativi, nel 1923. per la nostra pri­ma esposizione, che doveva illu­strare la complessità della nostra concezione. Io avevo dato alla mostra il titolo “Arte e Tecnica: una nuova Unità”, il che non riflette certamente una concezione meccanicistica. Il funzionalismo per noi non si identificava soltanto con il procedimento razio­nale, ma comprendeva pure i pro­blemi psicologici. Nel nostro concetto la realizzazione della forma doveva “funzionare” in senso fi­sico e psicologico. Eravamo ben consci che le esigenze emozionali sono non meno potenti e urgenti di quelle pratiche. Ma l'idea del funzionalismo fu, e rimane ancor oggi, fraintesa da coloro che ne vedono soltanto l'aspetto mecca­nico. Naturalmente le macchine e le nuove possibilità scientifiche erano per noi di estremo inte­resse, ma l’accento cadeva non tanto sulla macchina in sé quanto sul desiderio di porta più inten­samente al servizio della vita.
E se mi guardo indietro, debbo dire che la nostra generazione si è impegnata in difetto e non in eccesso a risolvere i problemi della macchina, e che dovrà es­sere la generazione nuova a far di essa il docile strumento per giungere alta forma, se vorrà che lo spirito riprenda il suo predo­minio.

Tutti i problemi della bellezza e della forma sono problemi di fun­zione psicologica. In una civiltà unitaria essi sono presenti nel processo della produzione in tutti i suoi aspetti, dalla progettazione di un oggetto d'uso a quella di un grande edificio. E’ compito dell’ingegnere arrivare ad una costruzione tecnicamente funzio­nante: l'architetto, l'artista, cer­cherà l'espressione. Egli si servirà della costruzione, ma è soltanto al di là della tecnica e della lo­gica che si rivelerà l’aspetto ma­gico e metafisico dell’arte sua, quando egli possieda il dono della poesia.
Ora, un dono, un talento innato possono venir portati alla luci­da quella che chiameremo una educazione creativa. Educazione ben poco significa se per educa­zione intendiamo soltanto un ar­ricchirsi di cognizioni.

Mete essenziali dell’educare han da essere: chiarezza e forza di convinzioni e di idee, volontà spontanea di servire il tutto, ossia la causa comune, educazione dei sensi e non soltanto dell’intelletto. La formazione professionale tec­nica e scientifica deve subordi­narsi alla formazione etica. E un nuovo sistema per perdere la na­turale presunzione, nei cui pericoli tutti incorriamo, è il lavoro di gruppo, il team, nel quale i singoli membri imparano a subor­dinare il proprio interesse alla causa. In questo modo colui che domani sarà un architetto, un designer, si troverà preparato a partecipare, a fianco dell’inge­gnere, del commerciante, del tec­nico, con pari diritti e responsa­bilità. al mondo della produzione. E’ proprio necessario che a que­sta forma di lavoro di gruppo partecipi anche l’architetto: egli se ne sta immobile, seduto sul suo antico mucchio di mattoni, e corre il rischio di perdere ogni possi­bilità di fortuna nell’ambito della produzione industriale.
Se analizziamo l’odierno mondo della produzione vi riscontriamo gli stessi contrasti che nella lotta dell’individuo contro lo spirito della massa. In contrasto al pro­cedimento scientifico della ripro­duzione meccanica (parliamo og­gi di automation), la ricerca del­l'artista è di forme spregiudicate e libere, che interpretino il senso vivo della vita quotidiana. L'ope­ra dell'artista è fondamentale per una vera democrazia e per una unificazione dei fini, poiché l'ar­tista è il prototipo dell’uomo uni­versale. Le suo doti intuitive ci salvano dal pericolo della super-meccanizzazione che, se fosse fine a se stessa, e impoverirebbe la vita e ridurrebbe gli uomini ad automi.

Ora, una giusta educazione può portare ad una futura giusta coo­perazione fra l’artista, lo scien­ziato e l'uomo d’affari. Poiché solo lavorando insieme essi potranno sviluppare uno standard di produ­zione che abbia per misura l’uo­mo, cioè che conferisca pari im­portanza agli imponderabili della nostra esistenza come alle esi­genze fisiche. Io credo alla cre­scente importanza del lavoro di gruppo per la spiritualizzazione dello standard di vita, entro la democrazia. La scintilla dell'idea che prima dà vita ad un’opera si accende bensì nell'individuo geniale, però in stretta coopera­zione con altri, in un team, nello scambio reciproco di idee; ed è nell’eccitante fuoco della critica che si giunge ai massimi risul­tati. Il lavorare in comune per un'alta meta entusiasma e accresce le capacità di tutti quelli che vi partecipano.

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Veduta degli esterni della HfG Ulm. In Domus n. 315, febbraio 1956

Vorrei augurare a Max Bill, a Inge Scholl, alla Facoltà e agli studenti di saper mobilitare in se stessi le forze creative indispen­sabili a questa idea di unità, e di formare un gruppo capace di affermarsi di fronte ad ogni sfida e di serbare nelle inevitabili lotte l'alto fine che si sono pro­posti: di non rincorrere cioè uno stile, ma mantenersi in perenne sperimentale ricerca di espres­sioni nuove e di verità nuove.
Io so quanto sia difficile conser­vare tale linea, quando il pro­dotto formale della consuetudine e della tenacia conservatrice viene di continuo presentato come volontà di popolo. Ogni esperimento esige libertà assoluta nonché ap­poggio di autorità e di privati di larga visione, che assistano con benevolenza alle doglie spesso mal comprensibili che accompa­gnano la nascita del nuovo. Date tempo a questa “Università per la forma” perché si sviluppi in pace. Un’arte organica esige perenne rinnovamento. La storia mostra che la concezione della bellezza è andata di continuo modifican­dosi con lo svilupparsi dello spi­rito e della tecnica. Ogni qual­volta l’uomo credette di aver tro­vato la bellezza eterna, cadde nella imitazione e nella sterilità La vera tradizione è il prodotto di un ininterrotto sviluppo; la sua qualità, perché serva da ine­sauribile stimolo agli uomini, deve essere dinamica e non sta­tica. Nell’arte non vi è nulla di definitivo, ma solo una perenne metamorfosi, parallela al mutarsi della realtà tecnica e sociale.
Nel lungo viaggio che feci l’anno scorso in Giappone, in India, nel Siam, avvicinai la mentalità orientale, mentalità tanto diversa — così segreta e magica — da quella logicamente pratica dell'uomo occidentale. Ci porterà l'avvenire, attraverso una più am­pia libertà di rapporti nel mon­do, a una graduale compenetra­zione di questi due atteggiamenti dello spirito? all'equilibrio fra l’elemento del sogno e dell’anima, e quello della logica e dell’intel­letto? L’uomo artista è, per la pienezza della sua natura, predestinato a favorire questa com­penetrazione, cominciando ad attuarla in se stesso — ed è questa una meta degna del nostro entu­siasmo.

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