Il nuovo libro del fotografo svizzero Roger Eberhard è due volte attuale. Se infatti negli ultimi anni il concetto di confine è stato sottoposto a un trattamento molto duro sia da un punto di vista topografico che politico, vedi la tragedia umanitaria delle migrazioni e il crescente nazionalismo di molti Paesi, la nuova emergenza mondiale legata al coronavirus ne sta minacciando perfino la definizione.
Il lockdown non è certo un muro fisico, come i tanti che ancora insistono sul pianeta e quelli che sono stati eretti in tempi più recenti, ma esattamente come un muro tirato su all’improvviso ha sancito un dentro e un fuori, dividendo quel che c’è al di qua da quel che c’è al di là.
Ed esattamente come un muro, non è detto che il supposto nemico sia quello che è rimasto chiuso fuori: come l’odio e il razzismo continuano a mietere vittime tra i cittadini al sicuro al di qua del muro, così paura e ansia, per non parlare del rischio di contagio in ambiente familiare, sono rimasti chiusi in casa con noi. E questo è forse ancora più vero nella fase due, dove la nostra sicurezza non dipende più solo da nostro comportamento ma anche e soprattutto da quello degli altri.
Con Human Territoriality (Edition Patrick Frey), dunque, Eberhard raggiunge due mete importantissime. Attraverso la documentazione seriale ma mai ripetitiva di tutti quei luoghi del mondo che hanno rappresentato un confine ma che ora non lo sono più — confini politici di imperi caduti, confini fisici spostati dall’uomo, confini naturali slittati per il cambiamento climatico — rivede storia, filosofia, economia, politica e sociologia in una sorta di revisione dei nostri stessi preconcetti, dove quel che consideriamo generalmente stabile si rivela invece mutabile. Ma così facendo, affrontando cioè l’idea di confine da un punto di vista concettuale, ci permette di ragionare in termini perfino più ampi, e di porci domande scomode a cui è sempre più difficile dare una risposta: dove finisce la nostra libertà e inizia quella degli altri? Con quali strumenti possiamo perseguire la sicurezza nostra e dei nostri cari? Cosa siamo disposti a fare per difenderci? Quanto influiscono le nostre azioni sul resto della società? Siamo parte di una comunità che mira a un bene comune o piuttosto individui in cerca di autodeterminazione? E ancora: possiamo dare per scontati i diritti che abbiamo acquisito venendo al mondo?
Le splendide vedute proposte da Eberhard sono estremamente affascinanti perché nascondono tutte delle insidie: è proprio dietro la naturale bellezza o la fotogenica desolazione di un paesaggio che si accalcano infatti le nostre inquietudini, sia quelle che abbiamo ereditato da un passato che la storia fatica a raccontarci in modo univoco e immutabile, sia quelle che stiamo costruendo noi stessi tra le quali rischiamo ogni giorno di finire prigionieri.