Cinema, 10 capolavori in cui architettura e design hanno un ruolo fondamentale

Film che parlano di architetti e architetture, ma anche pellicole in cui la progettazione ha un ruolo da protagonista assoluta. Da Bertolucci a Greenaway a Minority Report di Spielberg.

The Architect, Matt Tauber, 2006. È l’unica commedia nella lista, un film leggerissimo ma anche puntualissimo che mette in scena la relazione tra cliente e architetto in un caso estremo. Ad essere presi in giro sono sia i sogni di grandezza presto ridimensionati dei clienti che la boria dell’architetto che si percepisce come artista, assieme ai luoghi comuni sull’architettura modernissima. È un resoconto sia scemo che affidabile che sembra tratto dai peggiori resoconti di veri architetti e clienti.

La fonte meravigliosa, King Vidor, 1949. Al contrario del precedente questo di King Vidor (tratto da un romanzo di Ayn Rand) è un film precisissimo e molto ambizioso, in cui Gary Cooper è un architetto che cerca di imporre una visione di rottura in un mondo invece molto più convenzionale di lui. Oltre a questo il film riesce anche a raccontare la tensione che esiste tra costruzione e distruzione, il desiderio di vedere un disegno diventare realtà e poi il suo opposto.

La fonte meravigliosa, King Vidor, 1949.

Agente 007 - Missione Goldfinger, Guy Hamilton, 1964. In uno dei film più centrati della serie si può notare più che in altri come i film classici di James Bond (quelli con Sean Connery) facessero un uso molto particolare degli ambienti. Dovendo presentare ogni volta un villain diverso, utilizzavano i posti, gli interni ma anche gli esterni per descriverli. Non solo la sede della Spectre è un luogo dal design molto preciso e coerente, in cui il male è parte dell’architettura (come le sedie elettrificate) ma anche Goldfinger (il personaggio) è introdotto grazie all’interno della sua residenza che fu disegnata da Ken Adams. Tutto l’ambiente richiama la provenienza americana del personaggio ma si trasforma dopo poco in uno strumento di morte, è cioè prolungamento delle sue intenzioni. E quando deve illustrare il piano, farà emergere un plastico attorno al quale si radunano i suoi alleati, plastico in cui è nascosto James Bond che a quel punto è simbolicamente accerchiato dal nemico.

L’uomo nell’ombra, Roman Polański, 2010. C’è una sceneggiatura formidabile dietro questo film ed è una parte sostanziosa di quel che un buon thriller deve avere. A questa però Polanski aggiunge un lavoro pazzesco sulla location in cui si svolge gran parte della storia, una villa sulla spiaggia (letteralmente), tutta legno e tecnologia, realizzata con un design audace e piena di anfratti, vuoti e pieni in cui il protagonista si perde ma anche in cui scopre dettagli fondamentali. C’è un enigma nella sua testa che non riesce a risolvere mentre si muove in una casa che sembra fatta per essere essa stessa un enigma.

L’uomo nell’ombra, Roman Polański, 2010.

Dogville, Lars von Trier, 2003. La scenografia non c’è, è la scelta più estrema di tutte. Sembra essere puro teatro filmato Dogville ma non è così. Perché rinunciando alla scenografia e soprattutto alle pareti che delimitano gli ambienti, sono allora sequenze, zone e personaggi a creare spazi definiti. Lars Von Trier si apre così ad una dimensione di racconto molto più complicata, in cui tutto è in scena e non può sfruttare la gran parte degli elementi solitamente usati per aiutare la comprensione dello spettatore.
Less is more e in questo caso l’assenza di delimitazioni allo spazio diventa occasione non per negarlo ma per crearne di impossibili sfruttando la percezione dello spettatore.

Il conformista, Bernardo Bertolucci, 1970. Il fascismo è la sua architettura. Da questo parte il film di Bertolucci che racconta di un professore universitario di filosofia che segretamente è una spia del regime. Non c’è inquadratura che non lavori di fino su costumi e ambienti, che non utilizzi il design razionalista e l’ampiezza dei saloni o le lisce pareti bianche della sua architettura per incastrare il personaggio in un mondo che sembra un manifesto di propaganda, in cui l’abiezione delle sue azioni e della sua piccineria è perfettamente messa a contrasto con le aspirazioni di grandezza e solennità del regime a cui è soggetto.

Minority Report, Steven Spielberg, 2002. Da Blade Runner in poi la fantascienza è soprattutto le sue città. La maniera in cui viviamo nel futuro determina il nostro stato d’animo e più in grande il mood del film (si veda la strana unione del paesaggio di Shanghai e San Francisco fatta per Lei). Nessuno però ha lavorato come Minority Report per creare e immaginare a partire da piani, idee e suggestioni reali. La città futura ha un’anima fortissima, non è un esperimento di design ma uno di funzionalità che lancia un po’ più in avanti tantissime tendenze già attive quando il film era girato. Non possiamo dire di esserci arrivati e forse non ci arriveremo mai, ma le idee del presente sono ancora quelle.
E alla fine, quando tutto termina, siamo in un cottage nel bosco. Cambia il paesaggio, cambiano i materiali, cambia il design, cambia l’organizzazione degli interni e in questo modo il film ci dice che è cambiato tutto. Finalmente.

2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968. Il trionfo del design al cinema. Non c’è dettaglio che non fosse stato curato da Kubrick, non c’è struttura che non fosse stata costruita apposta, soprattutto quelle spaziali che simulano una gravità diversa dalla nostra. Effetti speciali che si fondono con quello che nel 1968 era il design del futuro e un uso spregiudicato del bianco per creare un senso ovattato. In 2001: Odissea nello spazio il design, semplicemente, è tutto. Il contrasto creato dalla tecnologia e da come regoli la vita nello spazio è determinante per il grande viaggio finale oltre la fisica, quando elementi d’arredo d’epoche diverse convivono nella stanza assieme al monolito.
Ciò che era assieme a ciò che è e a ciò che è sempre stato.

Tron: Legacy, Joseph Kosinski, 2010. È stato un insuccesso e di certo lanciava il cuore oltre troppi ostacoli. Il sequel di Tron aveva sulle spalle il peso di rendere onore al mutato scenario tecnologico ed essere di nuovo capace di utilizzare la computer grafica e la tecnologia oltre i suoi limiti. Non l’ha fatto. Ma quel che ha fatto è stato portare nelle sale un’esperienza ai limiti della videoarte in cui il nero era il colore dominante assieme a linee fluo arancione, azzurre e rosse, in cui ogni elemento rispondeva ad un design molto preciso fatto di forme morbide e tondeggianti e infine la musica era un tappeto dei Daft Punk. Pura sinestesia in cui la trama diventa un orpello e tutto quel che c’era da sapere sul mondo creato da Joseph Kosinski stava nel delirio visivo delle forme.

I misteri del giardino di Compton House, Peter Greenaway, 1983. Il cinema di Peter Greenaway è l’esaltazione pura della forma e nessuno dei suoi film ha lavorato così tanto sulle geometrie esatte come questo. Un gigantesco studio sul punto di fuga e sui paesaggi architettonici in cui vedute di giardini e case nascondono dettagli e misteri, in cui vedere è un gioco e quasi una sfida e guardare un obbligo. Un uomo deve disegnare una serie di vedute di una villa, una maniera di fissare la realtà come fotografie. Quelle vedute sveleranno ciò che a occhio nudo non si vede. Il paesaggio, le sue forme e l’ordine dei giardini come delle case è tutto ciò che conta.

Ogni inquadratura di un film organizza uno spazio. Lo fa utilizzando arredo, elementi nello sfondo, paesaggio urbano e non (per gli esterni) e soprattutto posizionando l’azione (cosa fa chi, in quale parte dell’inquadratura e muovendosi in quale direzione). L’organizzazione dello spazio è esattamente la maniera in cui l’architettura e per tanti versi anche il design, raccontano le loro storie o contribuiscono alla vita e alle storie di chi gli si muove intorno.

Ci sono quindi film che raccontano le storie di architetti, ci sono film che sono ambientati in luoghi architettonicamente significativi, ce ne sono altri ancora che costruiscono un mondo di design per comunicare delle idee e infine ci sono quelli che gli ambienti li usano per interagire con tutto il resto della messa in scena. In ogni caso l’architettura e il design diventano una parte fondamentale della proposta culturale e intellettuale del film. La trama rimarrà sempre il primo veicolo, e il più importante, ma sotto batte un cuore in cui pompa il sangue delle immagini e degli spazi.

American Psycho, Mary Harron, 2001.

Quando Billy e E.T. passano di fronte alla luna piena volando in bici, in una delle immagini più cruciali, significative e amate di sempre, Spielberg sta mettendo a frutto una precisa composizione e organizzando lo spazio orizzontale in modo che entrata e uscita di scena traccino un dolce arco in armonia con la musica che sale. È architettura dell’immagine. E anche quando alla fine della seconda parte di Ritorno al Futuro Marty McFly ritorna da Doc correndo dal fondo della scena verso il primo piano, è un’idea di organizzazione dello spazio che serve a dare al pubblico più tempo per realizzare cosa sta per succedere e anticipare l’espressione stupita di Doc, invece che farlo avvenire di colpo.
E lo stesso vale quando un dettaglio di design serve a definire cosa sogna, pensa o pianifica un personaggio come l’interno della casa di Patrick Bateman in American Psycho.

I film imperdibili per chi si occupa di architettura e design sono quelli più radicali e audaci sia nell’uso degli spazi che nel racconto di cosa significhi lavorare in questo campo. Ve li presentiamo in nessun ordine preciso.

The Architect, Matt Tauber, 2006.

È l’unica commedia nella lista, un film leggerissimo ma anche puntualissimo che mette in scena la relazione tra cliente e architetto in un caso estremo. Ad essere presi in giro sono sia i sogni di grandezza presto ridimensionati dei clienti che la boria dell’architetto che si percepisce come artista, assieme ai luoghi comuni sull’architettura modernissima. È un resoconto sia scemo che affidabile che sembra tratto dai peggiori resoconti di veri architetti e clienti.

La fonte meravigliosa, King Vidor, 1949.

Al contrario del precedente questo di King Vidor (tratto da un romanzo di Ayn Rand) è un film precisissimo e molto ambizioso, in cui Gary Cooper è un architetto che cerca di imporre una visione di rottura in un mondo invece molto più convenzionale di lui. Oltre a questo il film riesce anche a raccontare la tensione che esiste tra costruzione e distruzione, il desiderio di vedere un disegno diventare realtà e poi il suo opposto.

La fonte meravigliosa, King Vidor, 1949.

Agente 007 - Missione Goldfinger, Guy Hamilton, 1964.

In uno dei film più centrati della serie si può notare più che in altri come i film classici di James Bond (quelli con Sean Connery) facessero un uso molto particolare degli ambienti. Dovendo presentare ogni volta un villain diverso, utilizzavano i posti, gli interni ma anche gli esterni per descriverli. Non solo la sede della Spectre è un luogo dal design molto preciso e coerente, in cui il male è parte dell’architettura (come le sedie elettrificate) ma anche Goldfinger (il personaggio) è introdotto grazie all’interno della sua residenza che fu disegnata da Ken Adams. Tutto l’ambiente richiama la provenienza americana del personaggio ma si trasforma dopo poco in uno strumento di morte, è cioè prolungamento delle sue intenzioni. E quando deve illustrare il piano, farà emergere un plastico attorno al quale si radunano i suoi alleati, plastico in cui è nascosto James Bond che a quel punto è simbolicamente accerchiato dal nemico.

L’uomo nell’ombra, Roman Polański, 2010.

C’è una sceneggiatura formidabile dietro questo film ed è una parte sostanziosa di quel che un buon thriller deve avere. A questa però Polanski aggiunge un lavoro pazzesco sulla location in cui si svolge gran parte della storia, una villa sulla spiaggia (letteralmente), tutta legno e tecnologia, realizzata con un design audace e piena di anfratti, vuoti e pieni in cui il protagonista si perde ma anche in cui scopre dettagli fondamentali. C’è un enigma nella sua testa che non riesce a risolvere mentre si muove in una casa che sembra fatta per essere essa stessa un enigma.

L’uomo nell’ombra, Roman Polański, 2010.

Dogville, Lars von Trier, 2003.

La scenografia non c’è, è la scelta più estrema di tutte. Sembra essere puro teatro filmato Dogville ma non è così. Perché rinunciando alla scenografia e soprattutto alle pareti che delimitano gli ambienti, sono allora sequenze, zone e personaggi a creare spazi definiti. Lars Von Trier si apre così ad una dimensione di racconto molto più complicata, in cui tutto è in scena e non può sfruttare la gran parte degli elementi solitamente usati per aiutare la comprensione dello spettatore.
Less is more e in questo caso l’assenza di delimitazioni allo spazio diventa occasione non per negarlo ma per crearne di impossibili sfruttando la percezione dello spettatore.

Il conformista, Bernardo Bertolucci, 1970.

Il fascismo è la sua architettura. Da questo parte il film di Bertolucci che racconta di un professore universitario di filosofia che segretamente è una spia del regime. Non c’è inquadratura che non lavori di fino su costumi e ambienti, che non utilizzi il design razionalista e l’ampiezza dei saloni o le lisce pareti bianche della sua architettura per incastrare il personaggio in un mondo che sembra un manifesto di propaganda, in cui l’abiezione delle sue azioni e della sua piccineria è perfettamente messa a contrasto con le aspirazioni di grandezza e solennità del regime a cui è soggetto.

Minority Report, Steven Spielberg, 2002.

Da Blade Runner in poi la fantascienza è soprattutto le sue città. La maniera in cui viviamo nel futuro determina il nostro stato d’animo e più in grande il mood del film (si veda la strana unione del paesaggio di Shanghai e San Francisco fatta per Lei). Nessuno però ha lavorato come Minority Report per creare e immaginare a partire da piani, idee e suggestioni reali. La città futura ha un’anima fortissima, non è un esperimento di design ma uno di funzionalità che lancia un po’ più in avanti tantissime tendenze già attive quando il film era girato. Non possiamo dire di esserci arrivati e forse non ci arriveremo mai, ma le idee del presente sono ancora quelle.
E alla fine, quando tutto termina, siamo in un cottage nel bosco. Cambia il paesaggio, cambiano i materiali, cambia il design, cambia l’organizzazione degli interni e in questo modo il film ci dice che è cambiato tutto. Finalmente.

2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968.

Il trionfo del design al cinema. Non c’è dettaglio che non fosse stato curato da Kubrick, non c’è struttura che non fosse stata costruita apposta, soprattutto quelle spaziali che simulano una gravità diversa dalla nostra. Effetti speciali che si fondono con quello che nel 1968 era il design del futuro e un uso spregiudicato del bianco per creare un senso ovattato. In 2001: Odissea nello spazio il design, semplicemente, è tutto. Il contrasto creato dalla tecnologia e da come regoli la vita nello spazio è determinante per il grande viaggio finale oltre la fisica, quando elementi d’arredo d’epoche diverse convivono nella stanza assieme al monolito.
Ciò che era assieme a ciò che è e a ciò che è sempre stato.

Tron: Legacy, Joseph Kosinski, 2010.

È stato un insuccesso e di certo lanciava il cuore oltre troppi ostacoli. Il sequel di Tron aveva sulle spalle il peso di rendere onore al mutato scenario tecnologico ed essere di nuovo capace di utilizzare la computer grafica e la tecnologia oltre i suoi limiti. Non l’ha fatto. Ma quel che ha fatto è stato portare nelle sale un’esperienza ai limiti della videoarte in cui il nero era il colore dominante assieme a linee fluo arancione, azzurre e rosse, in cui ogni elemento rispondeva ad un design molto preciso fatto di forme morbide e tondeggianti e infine la musica era un tappeto dei Daft Punk. Pura sinestesia in cui la trama diventa un orpello e tutto quel che c’era da sapere sul mondo creato da Joseph Kosinski stava nel delirio visivo delle forme.

I misteri del giardino di Compton House, Peter Greenaway, 1983.

Il cinema di Peter Greenaway è l’esaltazione pura della forma e nessuno dei suoi film ha lavorato così tanto sulle geometrie esatte come questo. Un gigantesco studio sul punto di fuga e sui paesaggi architettonici in cui vedute di giardini e case nascondono dettagli e misteri, in cui vedere è un gioco e quasi una sfida e guardare un obbligo. Un uomo deve disegnare una serie di vedute di una villa, una maniera di fissare la realtà come fotografie. Quelle vedute sveleranno ciò che a occhio nudo non si vede. Il paesaggio, le sue forme e l’ordine dei giardini come delle case è tutto ciò che conta.