Tempo e rivoluzione a Dak’art 2016

La dodicesima biennale dell’arte africana contemporanea del Senegal mette trionfalmente in mostra la fragilità: della biennale stessa, dell’arte del passato e di quella del futuro.

Tutto è estremamente precario. Nella punta più meridionale della città di Dakar, a strapiombo sul mare, ha sede il vecchio palazzo di giustizia, una struttura monumentale e desolata color sabbia e polvere. Abbandonato venti anni fa per l’instabilità delle fondamenta, rimane placidamente al suo posto, vuoto e sospeso nel tempo; un immenso cassone che fa da sfondo al capolinea dei bus pubblici, protetto dalla vicina prigione che scoraggia occupazioni abusive.
Dak'art 2016
Alexis Peskine, Radeau meduse
È proprio in questo luogo, risistemato alla bell’e meglio con qualche parete di cartongesso, vernice, disinfestante e un impianto elettrico con canaline esterne, che si è svolta la dodicesima edizione di Dak’art, la biennale dell’arte contemporanea africana di Dakar. Già in passato altri curatori avevano usato questo edificio come luogo espositivo – tra loro Bruno Corà e Hans Ulrich Obrist – ma quello che ha fatto il curatore di quest’anno Simon Njami è stato unico e strabiliante: è come se la Biennale, dopo venti anni di storia, fosse riuscita a trasformare la sua natura effimera, precaria e fragile in fascino. Attraversando il grande atrio ed esplorando gli ambienti, non era più il monitor spento o il quadro appeso storto a balzare all’occhio, ma l’intensità dissestata di tutto quello che si osservava. Il tempo avvolgeva ogni cosa e nel titolo della mostra “La Cité dans le jour bleu” – la città nel giorno blu, tratto da una citazione di Léopold Sédar Senghor – ben si sono mescolate la densa speranza delle parole “giorno” e “blu” con un carico di abbandono e disillusione.
Dak'art 2016
Palais de Justice
R E V O L U T I O N – si leggeva entrando nella sala A, a caratteri maiuscoli e spaziati come le grandi dichiarazioni da pronunciare con autorevolezza. L’opera di Bili Bidjocka era un’aula del tribunale dipinta con scritte e terra sul pavimento. Una situazione artificiale e costruita, ma allo stesso tempo inquietantemente naturale in questo palazzo decaduto, che un tempo era il luogo della legge. Si cammina con cautela nella stanza, cercando di non incespicare nei sassi, di non cadere in questo cantiere abbandonato. Ed è proprio questo senso di lavori in corso – o di lavori che a un certo punto della storia erano in corso – che la violenza di parole e atti della rivoluzione diventano inoffensivi: grida lontane trasformate in qualcosa che è già stato o non è mai riuscito a essere. 
Dak'art 2016
Joël Andrianomearisoa, La maison sentimentale. Courtesy of Sabrina Amrani. Photo Adji Dieye
Il mandato della rivoluzione non è tanto di cambiare il mondo, quanto di cambiare il tempo. Tra le conferenze organizzate dalla biennale, Henriette Gunkel ha citato Giorgio Agamben, parlando di libertà, futuro e strategie estetiche che permettono diverse temporalità e diversi modi di abitare lo spazio; per farlo, ha analizzato le opere Stories of Our Lives di Jim Chuchi del 2014 e The Nest Collective e puntato il dito sulla possibilità di contestare un tempo lineare, continuo, unificato, che vedeva il cambiamento come qualcosa che si muove in avanti. Manipolare il tempo permette di creare uno spazio di libertà a tutte le definizioni del sé (identità queer, autenticità, africanità) e ben si presta a creare confusione per fare chiarezza, come già da tempo fa in Sudafrica il giornale Chimurenga Chronicle, una specie di quotidiano retrodatato, scritto per avere un’altra occasione e per capire il senso del nostro passato. Cercando meccanismi di sabotaggio di passato, presente e futuro, è stato più bello visitare la Biennale di Dakar osservando la serie di principesse di Dalila Dalleas Bouzar, le finestre di Aïda Muluneh, il video Immaginate se la verità era una donna – e perché no? di Euridice Getulio Kala. Più bella la città mausoleo senza vita di Youssef Limoud (vincitore del primo premio della Biennale) e la scultura Non-stop city di Maurice Pefura in cui forme di legno s’incastrano per comporre un paesaggio astratto e sospeso; e sempre curioso vedere la gente che si ferma a cercarsi nelle opere che ritraggono i luoghi e gli spunti che sono loro familiari, come le immagini del quartiere Ouakam di Dakar ritratto da Sammy Baloji e le piccole tele che componevano l’enciclopedia di Ndoye Douts.
Dak'art 2016
Joël Andrianomearisoa, La maison sentimentale. Courtesy of Sabrina Amrani. Photo Adji Dieye
Nella monumentale e decadente imponenza del vecchio palazzo di giustizia, in realtà la maggior parte delle opere in mostra sembrava camminare in punta dei piedi e bisbigliare, così come fanno i visitatori che – non avendo visto il certificato di collaudo – elogiavano la bellezza del luogo ma si muovevano con prudenza in una struttura dichiarata inagibile e abbandonata da decenni in un Paese dell’Africa Sub-Sahariana. Ci si sentiva fragili, immersi in un memento mori. E da qui passiamo al successivo tema della Biennale di Dakar: l’omaggio. 
Una cosa straordinaria degli eventi governativi e delle biennali – loro emanazione – è la grande ricchezza con la quale si rende omaggio: personali, retrospettive, monografie, anniversari, si celebrano nascite e morti, cristallizzando luoghi, date e persone, e costruendo intorno a questi nodi una strategia della gloria che partecipa a creare leggende e miti fondatori. Oltre all’immancabile riferimento al rimpianto primo presidente del Senegal Léopold Sédar Senghor (1906–2001) icona del sostegno alle arti (con ovviamente significative e necessarie critiche e contestazioni), negli anni la Biennale di Dakar ha reso omaggio e incrociato lo splendore e la fine di grandi uomini e donne protagonisti della cultura dell’Africa. Gloria al pantheon che tra i tanti accoglie anche il pittore Amadou Sow (1951–2016), il grande intellettuale e assessore alla cultura della città di Dakar (che dovremmo sempre ricordare che è malamente gemellata con la città di  Milano) Oumar Ndao (1958–2014), il direttore artistico del centro d’arte doual’art Didier Schaub (1952–2014), l’artista Goddy Leye creatore della Art Bakery in Camerun e ideatore di Exit Tour (1965–2011), la fotografa Leila Alaoui (1982–2016) e maestri come Amal Kenawy (1974–2012) e Moustapha Dimé (1952–1998).
Dak'art 2016
Joe Ouakam
Di fronte alla funerea constatazione che molti grandi della storia non ricevono in vita sufficienti onori, ho deciso di non procrastinare e cominciare subito a celebrarne una selezione dei miei preferiti. “Con me ti consiglio allora di affrettarti” – mi ha risposto, come sempre caustico, Jean-Loup Pivin, grande architetto e padre fondatore della Revue Noire. Come architetto, Pivin ha un’amplissima produzione in Africa, non solo nella costruzione e nel restauro di edifici, in particolare in terra (suo è il Museo nazionale del Mali), ma anche nell’ideazione di strategie culturali per la preservazione e valorizzazione del patrimonio. Ma è con Revue Noire che è riuscito veramente a influenzare una generazione. Quest’anno alla Biennale di Dakar l’artista Joël Andrianomearisoa ha dedicato il progetto speciale proprio a questa pubblicazione che tra il 1991 e il 2001 ha prodotto 34 numeri capaci di cambiare il modo in cui alcune persone chiave dell’Africa o legate all’Africa guarderanno il loro continente d’origine e se stesse. L’ha raccontato benissimo Joël Andrianomearisoa che ha fatto di questa rivista una casa, un luogo accogliente, pubblico e personale, in cui nelle pagine grandi ed eleganti si mescolano musica, convivialità, ma anche un mondo personale di ricordi intimi che si collegano al racconto del mondo.
Dak'art 2016
Bili Bidjocka
La potenza di Revue Noire è proprio questa sua capacità di aggregare con un progetto intellettuale preciso in cui si dà la parola alla forma. Le riviste sono, in effetti, la cosa più vicina alle scuole di pensiero, capaci – nelle loro declinazioni migliori – di creare un proprio spazio e tempo e di avvicinare e orientare insieme contributori e lettori. Anche a Dakar durante la biennale e grazie all’iniziativa African Art Book Fair organizzata nella libreria Aux 4 Vents, sono state proprio le pubblicazioni a essere protagoniste, a creare incontro e nutrire immaginari e cultura come hanno sempre fatto nella storia. Ma la questione della Scuola di pensiero resta aperta. Al mio lungo elenco dei grandi uomini e donne protagonisti della cultura dell’Africa vorrei offrire onore e celebrazioni, ma anche un monito: create scuole di pensiero! Come stanno facendo ognuna a modo suo le riviste Afrikadaa, IAM, Kwani?, i maestri Rasheed Araeen con l’utopia della rivista Third Text e El Anatsui che non ha creato una rivista, ma che – con la sua incredibile coerenza ed eleganza non solo di artista, ma anche di uomo –, sostiene la produzione delle arti in Nigeria. Non si tratta semplicemente di creare scuole ma di avere nella mente un progetto intellettuale preciso. Perché se la rivoluzione si fa cambiando il tempo, forse ha senso accertarsi che quello che si sta facendo non finisca con noi. Fermo restando che si voglia cambiare il mondo.  
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