Après Eden

Ospitata nella serie di omaggi al collezionismo privato che La Maison Rouge, a Parigi, dedica ogni anno a una figura internazionale quella di Arthur Walther è una delle più importanti e belle collezioni di fotografia esistenti.

Samuel Fosso, African Spirits, 2008 Courtesy The Walther Collection and Jean Marc Patras / Paris
La mostra è una occasione di confronto con i gusti e la storicizzazione della museografia recente. Iniziata nel 1990 quando il suo proprietario, seguendo i consigli e la linea indelebile impressa da Bernd e Hilla Becher, diventò simultaneamente fotografo, collezionista ed esperto di fama internazionale.
Nobuyoshi Araki, 101 Works for Robert Frank (Private Diary), 1993 Courtesy The Walther Collection and Anton Kern Gallery, New York
In apertura: Samuel Fosso, African Spirits, 2008. Courtesy The Walther Collection and Jean Marc Patras / Paris. A sinistra Malcom X, a destra Angela Davis. Qui sopra: Nobuyoshi Araki, 101 Works for Robert Frank (Private Diary), 1993. Courtesy The Walther Collection and Anton Kern Gallery, New York
L’apporto dei maestri della scuola tedesca ha aggiunto al suo gusto personale una coscienza tecnica del mezzo e un rigore concettuale ineguagliabili. Nella sede istituzionale nei dintorni di Ulm come nello spazio della sua Project Room di New York si sono succedute negli ultimi dieci anni mostre tematiche, di approfondimento che non erano semplici variazioni all’interno di un gigantesco catalogo. Si tratta di un archivio di capolavori che ha contorni dilatati ed è una mappa dalla  geografia molto estesa. Da Blossfeldt ad Araki passando per Avedon e Malik Sibidé, ogni nuovo progetto e materiale che viene ad arricchirla è un continuum di emozione.
Mikhael Subotzky, Mark, Hout Bay, 2005 Courtesy The Walther Collection and the Goodman Gallery, Johannesburg
Mikhael Subotzky, Mark, Hout Bay, 2005. Courtesy The Walther Collection and the Goodman Gallery, Johannesburg

Dietro il pericolo di essere intrappolati nella vertigine di grandi nomi si cela invece un modo squisito per immergersi nel meticoloso lavoro di grandissimi fotografi. La sua qualità è la chiave d’accesso a un regesto impressionante continuamente ricomposto attorno a una lista precisa di aree geografiche: Africa, America Cina. Un viaggio fatto di destinazioni concettuali suggestive che si rivelano essere efficaci tanto quanto i nomi e i meccanismi processuali degli artisti inclusi.

Che si tratti di opere storicizzate come quelle di Ed Ruscha o più recenti come quelle di Ai Weiwei la totalità della collezione è in movimento continuo. In questa efficace e nuova versione in mostra a Parigi, un altro elemento si sovrappone ed è la preziosa capacità di affabulazione del suo curatore Simon Njami.

Ai Weiwei, Dropping a Han Dynasty Urn, 1995 Courtesy The Walther Collection and Lisson Gallery
Ai Weiwei, Dropping a Han Dynasty Urn, 1995 Courtesy The Walther Collection and Lisson Gallery. Immagine centrale della serie di tre
“Après Eden” è il titolo di un nuovo lungo racconto che si dipana in capitoli diversi, in cui i frammenti senza tempo raccolti da Arthur Walther e riorganizzati dal curatore configurano una inedita posizione del soggetto nei confronti della fotografia. Scartata l’ipotesi dello stereotipo aneddotico il mezzo fotografico cessa di essere un medium e si configura come rivelatore della condizione umana. La vera e propria uscita dal paradiso terrestre è non solo metafora della percezione esistente ma in una sequenza di microracconti  passa in rassegna le più distanti possibilità di attraversare la storia della fotografia recente.
Dal giardino al corpo, dalla maschera al confronto con l’altro, siamo sempre meno voyeurs e progressivamente responsabilizzati in un romanzo che ci immerge in un passaggio importante della cultura contemporanea. La favola riassemblata dal curatore parte dalla decisione avventurosa di abbandonare confini e interdetti. Le scelte sono audaci e scardinano la retorica che definisce generalmente la fotografia e denota i suoi contorni: sparite le etichette documentaria, artistica, sociologica, di moda. Salta il terreno di confronto consolidato ed è come se la natura rivoluzionaria del mezzo fotografico si riappropriasse del reale.
Malick Sidibé, A la Bagnade au fleuve Niger, 1973; Les Amis, 1976 Courtesy The Walther Collection and MAGNIN-A, Paris
Malick Sidibé, A la Bagnade au fleuve Niger, 1973; Les Amis, 1976. Courtesy The Walther Collection and MAGNIN-A, Paris
Le immagini in mostra sono figure forti nelle mani di un prestigiatore e di un abilissimo baro, capaci di incantare. Non sappiamo se essere alle prese con un superlativo mazzo truccato dalle intelligenti e inedite scelte di Njami ma capace di impallare la nostra percezione quando vengono serviti a ritmo alternato grandi classici, da August Sanders a Muybridge, dobbiamo pensare che è il collezionista che gli ha lasciato rimescolare con tanta velocità le carte.
È comunque un piacere che ci trasporta sui ritmi serrati dei Diari privati di Nobuyoshi Araky o sulle atmosfere dilatate della installazione video di Yang Fudong. A tratti si ha la sensazione di muoversi sulla grande lezione del terreno specialistico della fotografia africana e della sua diaspora di cui Simon Njami è una autorità assoluta. Si resta incatenati dal fascino della ricerca di David Goldblatt o intrappolati nella lunghissima cadenza dei work in progress di Santu Mofokeng. Che si sfoglino gli anonimi archivi di fotografia delle origini o si ricontestualizzano le immagini iperpoliticizzate nelle ricerche personali di alcuni autori come Richard Avedon o Samuel Fosso non si può non godere dell’intreccio sotteso al piano generale della mostra.
Guy Tillim, Grande Hotel, Beira, Mozambique, from “Avenue Patrice Lumumba,” 2007 Courtesy The Walther Collection and Stevenson, Cape Town and Johannesburg
Guy Tillim, Grande Hotel, Beira, Mozambique, from “Avenue Patrice Lumumba,” 2007. Courtesy The Walther Collection and Stevenson, Cape Town and Johannesburg
Che sia la perfezione del semplice scatto o la complessa dinamica delle tante installazioni, siamo immersi costantemente in una serie di suggestioni panoramiche. Quella dedicata alla torre di Pont City di Mikhael Subotzky e Patrick Watherhouse con vista mozzafiato su Johannesburg e la sua storia di abbandono ridimensiona definitivamente i sogni del modernismo. La fotografia finisce di apparirci come il suo filtro neutro e immacolato e segue invece l’umanità nel nostro destino ingombro di errori.
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Bernd and Hilla Becher, Kies- und Schotterwerke (Gravel Plants), 1988-2001 Courtesy The Walther Collection and Sonnabend Gallery
Bernd and Hilla Becher, Kies- und Schotterwerke (Gravel Plants), 1988-2001. Courtesy The Walther Collection and Sonnabend Gallery

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