Per chi, come diceva José Saramago, crede che “i deserti non sono solo quelli privi di uomini” e che anzi “non è raro trovare deserti e aridità mortali tra le folle”, la scelta di appartarsi in luoghi remoti dove riconciliarsi con sé stessi e con il mondo tra la sabbia, le rocce e il solo rumore del vento non sembra così bizzarra. Per questo, non sono inusuali opere firmate da validi architetti che in tutto il mondo realizzano, in territori aspri e impervi, il buen retiro per committenti che, a congestionate città, preferiscono la solitudine di immensi spazi aperti, o le abitazioni per chi trova in questi contesti un lavoro e quindi un futuro. Le architetture del deserto allora si attrezzano con accorgimenti progettuali e tecnologici – dal solare passivo, allo studio dell’orientamento, dei flussi di ventilazione incrociata e dei sistemi di ombreggiamento, all’uso di materiali naturali reperiti localmente e dotati di inerzia termica – per affrontare climi estremi, partendo dall’esigenza bivalente di abbattere, da un lato, l’impronta ecologica e, dall’altro, di fornire a chi le abita un rifugio sicuro, confortevole ed accogliente. Così, dal Nevada al Great Karoo, dal deserto australiano a quello indiano, dal Perù alla Namibia, sono tante le architetture che popolano i deserti: da quelle che, ispirate ai caratteri materici, cromatici e geomorfologici del sito, sembrano appartenere da sempre al paesaggio (Openstudio Architects, Ro Rockett, Barclay & Crousse Architecture, Nina Maritz Architects), a quelle che rimarcano più decisamente una propria identità di opera “artificiale” (Dunn and Hillam Architects, Kendle Design Collaborative, Sanjay Puri Architects, AGI Architects, Studio OPA’s).

In ogni caso, la protagonista è sempre una sola: una Natura brulicante di vita che, tra rocce e dune, luci abbacinanti e raffiche di vento, penetra incessantemente da scorci mirati, patii e corti interne, terrazze e belvedere, quasi come se neppure nel deserto, in fondo, si fosse mai veramente soli.