In quante case abbiamo vissuto? Intervista a Francesco Bianconi dei Baustelle

Il cantautore e frontman ci racconta il suo Atlante delle Case Maledette, illustrato da Paolo Bacilieri, dove  esplora gli ambienti domestici, le architetture e il loro potere di dare forma alle storie umane.

Per quanto lo si possa associare alla sfera della musica, è quasi sorprendente che Francesco Bianconi non fosse già un habitué delle pagine di Domus prima d’ora. I testi che scrive fin dalle origini dei Baustelle sono in effetti di quei testi che ti costruiscono attorno lo spazio che stanno evocando, nel tempo stesso in cui la canzone suona. Le tovaglie dei navigli di Un romantico a Milano prima che nascessero i Navigli™, numerosi appartamenti, l’Esselunga di cui sembra di poter toccare le mensole in La Guerra è finita, le vie dove Arriva lo yé-yé, ciò di cui minigonne pallide cercano forme passando. 
Finché, mentre Domus scriveva il suo diario collettivo della quarantena, non ha scritto direttamente lui un libro fatto di case, dove gli spazi più o meno domestici formano e raccontano una biografia. Si intitola Atlante delle Case maledette, è uscito quest’anno per Rizzoli Lizard, illustrato da Paolo Bacilieri, e Domus ne ha discusso con l’autore, tra ordine, morte, vita, salvezza, fustini del Dash e Chelsea Hotel. 

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Esergo. Illustrazione di Paolo Bacilieri.

Prima di tutto, le fondamenta: come è  nato questo libro?
Anche piuttosto casualmente. L’idea embrionale del libro è nata poco prima che scoppiasse la pandemia, ero al supermercato e mi è venuta questa domanda “In quante case sono stato, ho messo piede nella mia vita?” dopodiché: “In quante case un essere umano, un abitante medio dell’Occidente,  mette piede nella vita?”
Ho iniziato a pensare alla mia esperienza, e mi venivano tanti flash, immagini di architetture e di interni Tanti davvero, anche case in cui avevo passato poco tempo, dormito una notte. Non case in cui avevo abitato, ma case in cui in qualche modo avevo vissuto.
Da qui l’idea: sarebbe bello scrivere la storia di un uomo che fa un elenco simile, e ricostruisce la sua vita attraverso questo elenco. E lo fa chiuso nella casa in cui vive perché fuori c’è una minaccia, che in origine volevo lasciare non spiegata.
Poi mentre cominciavo è cominciato anche il coronavirus, mi sono trovato scavalcato a sinistra dalla realtà, da una cosa di cui vedevamo gli effetti tragici. Trovatomi a scegliere ho scelto, gli ho dato un nome: un virus, anche se non specificato.

Perché proprio un libro?
Da tempo volevo scrivere un nuovo libro, e mi sembrava una buona idea narrativa scrivere un romanzo al contrario, decostruendone la forma, partendo dal particolare delle case per poi arrivare all’universale. Un  romanzo  corale, la storia di un essere umano dove però è il coro delle case a parlare. 

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La casa nel bosco. Illustrazione di Paolo Bacilieri (Rizzoli Lizard).

Avevi già pensato tu a lavorare con Paolo Bacilieri ?
Non lo conoscevo se non come fan. Mi ha incoraggiato un amico che lavora in Rizzoli Lizard, (facciamolo illustrato!), me l’hanno proposto ed è stata una buona intuizione. Mi è sempre molto piaciuto, Paolo, mi piace il suo tratto: sono molto appassionato di ciò che tende al realismo nelle illustrazioni, nei comics, sono molto più portato al dettaglio. Sono un crepaxiano, mi piace Manara come mi piace Crepax.

Nel libro, c’è quasi un solo punto dove qualcuno si pronunci esplicitamente riguardo alle case. Nella casa di Bologna, Vittoria dice: “Io odio le case.” La sua stanza annullata fa pensare a Elias Canetti che in buona sostanza ci ammonisce: non mettete ordine, al fondo  trovate solo la morte.
Sei tu?
No non è la mia visione riguardo le case. È il punto di vista di un personaggio del libro che mi piaceva fosse anche tranchant, estremo, sai, giro studentesco, Bologna quasi per antonomasia. 
Io non lo condivido. Amo le case, ne sono affascinato. Allo stesso tempo però ne capisco anche il potenziale potere mortale, perché alla fine le case hanno fatto il giro dal punto di vista della loro funzione, lo dice anche il protagonista del mio libro: c’è una funzione originaria di riparo, di sopravvivenza, che si mantiene ma si fa sempre più sottile; in questa parte del mondo viene caricata sempre più di nuovi valori, e questo comprende anche degenerazioni, distorsioni. La vita avviene lì, in case, che quindi divengono anche teatri di tragedie. Non a caso ho messo come apertura del libro questo pezzettino di canzone di Gaber e Luporini: ‘il giudizio universale non passa per le case, le case dove noi ci nascondiamo. Bisogna ritornare nella strada, nella strada per conoscere chi siamo.’
Ci si può conoscere anche dentro le case, ma si deve avere anche il coraggio di tenerle aperte, avere una predisposizione mentale alla conoscenza. Spesso la casa occidentale ha come controindicazione il fatto che diventa un luogo di comodità, quindi l’uomo rimane prigioniero dell’albergo che si è costruito. È disincentivata l’esplorazione, la conoscenza. 

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La casa di Bologna. Testo di Francesco Bianconi, illustrazione di Paolo Bacilieri.

C’è lo “star bene” in casa e ci sono i versi con cui apri il libro. A pensarci, sogno quasi quotidianamente la casa in cui sono cresciuto e di cui ho scoperto storie. Nell’Atlante c’è anche la casa come luogo dell’origine?
Sì, la casa nella casa.  Avevo questa casa molto grande in un paesino di provincia, costruita da poco dai miei genitori. Molto spazio. una camera meravigliosamente vuota, ancora da destinarsi, solo parquet e mura bianche, e quasi automaticamente era diventata una sorta di posto dei giochi, miei e dei miei due amici; erano ammassati fustini del Dash riempiti di giocattoli. Io avevo paura, come anche Dimitri il mio protagonista, dell’uscirne, in tutta questa fanciullezza che era anche felice. Paura di fare una passeggiata passare davanti al bar dove c’erano gli adulti e i vecchi, che qualcuno potesse salutare come si fa da noi noi ‘Ciao bellino, dichissei? (figlio) '
Credo che una matrice anche di ciò che mi è successo, psicologicamente parlando, nella vita  — Questo libro è molto autobiografico — possa avere la sua origine in questa chiusura, che  nessuno  mi ha imposto: me la sono fatta da solo questa casa comoda, la salvezza.
Molte cose forse si spiegano, nelle vite degli esseri umani — nella mia sicuramente — a partire da certe case, da come ci si relaziona fin da quando si è piccoli esseri umani con gli ambienti, gli interni delle case.

Sentirsi a casa, come espressione, implica un po’ un problema, a questo punto.
Sì, perché non si è mai al sicuro. È una grande balla la sicurezza, non si è salvi mai.
È proprio mal posto il problema: si tende a  identificare le case come luogo sicuro, forse perché atavicamente la funzione era quella, il riparo, forse perché contrasta il mistero dell’ignoto, del fuori incontrollato e caotico dove ti può succedere qualsiasi cosa, con lo spazio delimitato e conosciuto. Ma e lì l’errore: il conosciuto, come dice Canetti, poi alla fine è l’ordine, e alla fine tende alla morte. Il conosciuto muore, è lo sconosciuto che può essere vitale.

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La topaia di Pigalle. Testo di Francesco Bianconi, illustrazione di Paolo Bacilieri

La parola attorno a cui stiamo girando è controllo. La casa è stata molto studiata in questo senso, penso a Beatriz Colomina, alla casa occidentale degli ultimi secoli come dispositivo di controllo della donna, dei corpi, del piacere. Noi architetti ne usciamo come perfetti criminali (e non sarò io a dire di no)
Nel progetto, dal punto di vista della realizzazione il controllo c’è. Mi rendo conto che sia una sfida, dovresti fare un gesto dadaista per realizzare l’incontrollato.
A me interessa molto anche il controllo che esercitano gli abitanti delle case. Gli esseri umani tendono spesso a fare della casa un’ancora contro la loro tendenza ad andare alla deriva.
Ho visto case di persone anche note come visionari, cosiddetti artisti, scrittori, con biblioteche ordinatissime, oggetti, feticci. Pensa al Vittoriale degli Italiani di D’Annunzio: oggetti ovunque, ma un ordine pazzesco, accumulatorio. 

Dei vari spazi raccontati, quali ti sei divertito di più a scrivere? Anzi, domanda precedente: ti sei divertito a scrivere il libro?
Domanda interessante. In generale — ma non sempre — io parto con un motore iniziale che è molto divertente, poi il godimento arriva soprattutto alla fine, perché è come la fine di una specie di sofferenza. Quando entro nel vivo della scrittura, di una prosa diluita in uno spazio molto lungo, diversa da una canzone, per me è come ritrovarmi da solo con parti di me che vorrei anche tenere chiuse in cantina.

Sei “a casa”, quindi.
Sì, esatto. Però, dici, dov’è il gusto che  spinge gli scrittori a scrivere? Per me, alla fine, è come aver combattuto una specie di piccola battaglia, dove alla fine vinci tu, una volta che l’hai  fatto, perché lo scritto lo chiudi, lo dai in pasto al mondo.
Nella letteratura moderna, nella crisi del romanzo classico, c’è molto questa cosa. La cosiddetta autofiction, gli scrittori che si mettono in pagina direttamente, il modello (Emmanuel) Carrère. Lui, ad esempio, un gigantesco narcisista, però vedo il suo dolore nell’aver faticato a scrivere quelle cose, e allora reputo come un valore aggiunto, per cui anche se fosse un bugiardo, a me arriva comunque una forma di sincerità.

In questo processo, allora, quali spazi ti sono costati di più in termini di scrittura?
Il primo capitolo, la casetta, la casa di mia nonna dove ho passato tanta infanzia, è stato doloroso. La seconda casa al mare anche, perché, proprio come succede a Dimitri, la casa al mare diventa poi un luogo dove metaforicamente ‘cominciano a urlare tutti’, e il protagonista si accorge di essere invecchiato quando vede l’elenco dei ricordi accumulati in quel luogo.

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La casetta. Testo di Francesco Bianconi, illustrazione di Paolo Bacilieri.

Cambiamo terreno: cosa deve contenere la casa di Bianconi?
Domanda calzante, ho appena comprato casa.
Non mi piacciono case troppo grandi, passo ora da 80 a 130 mq, e per me è gigantesca.
Mi piace stare in città. La dimensione eremitaggio mi affascina pure, ma la rimandiamo a settembre.
Che altro. preferisco case d’epoca rispetto alla modernità; ma questo ha un senso a Milano.
Poi: cucina. Le cucine sono le stanze mie predilette. Anche le camere da letto, ma cucina e salotto sono più importanti per me: vivo lì, per me in un salotto ci si potrebbe quasi pure dormire.

E niente casa-bottega.
Lì è diverso. La casa che lascio ha, al piano di sotto, un altro appartamento, che è bottega. E che rimarrà, mentre casa verrà traslata. E bene così. Ho sperimentato che casa-bottega a minima distanza può essere ottimo,  ma ora diverrebbe homeworking e per me è l’inferno.
La separazione di casa e bottega, adesso, aiuta.

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La casa di ringhiera. Testo di Francesco Bianconi, illustrazione di Paolo Bacilieri.

Il tuo ultimo album Forever è stato realizzato a Bath, no?
È stato fatto il nucleo a Bath, pianoforte e quartetto d’archi. Poi le sovraincisioni sono state fatte un po’ a New York, Los Angeles e qui, casa-bottega-studio.

Quindi ci credi nella questione dei luoghi dove si crea , dall’eremo allo studio al mito del Chelsea Hotel etc.?
Non ci credo fino a quei livelli in cui si pensa che l’influsso sia palese, tipo ‘eh, si sente che quella cosa è stata registrata nell’eremo o nel Chelsea.’
Non è necessariamente così. Io so di fallimenti epici – non so farti ora i nomi - anche di gente che ha preso lo studio a Capri sui faraglioni, e non è venuto fuori nulla. La voce del padrone di Battiato, e Patriots, e L’arca di Noè, tutto quel periodo aureo di pop italiano è stato registrato in uno studiolo a casa di Radius il chitarrista, uno studio casalingo che lui aveva fatto nella cantina di questo appartamento in piazzale Susa (Milano), pure privo di finestre.
Ad esempio, invece, una casa che è anche il tuo studio di registrazione, da un certo punto di vista può aiutare, perché non hai la spada di Damocle del tempo-studio che passa.

Però hai quella della casa.
Sì, pericoloso pure quello: devi essere anche manager di te stesso. Io non credo nell’eterno “rifacciamola”, sono dell’opinione che a un certo punto si chiude. C’è il mondo, le infinite possibilità, e a un certo punto si opera una scelta, si taglia una fettina di quell’infinito e la si porta a casa.

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La casa di Silverlake. Illustrazione di Paolo Bacilieri (Rizzoli Lizard).

Pensavo al faticoso parto di Exile on Main St. nella famosa villa in Costa Azzurra. Queste storie di produzioni legate a luoghi che si trasformano in luoghi di non ritorno mi hanno sempre attratto.
Sì, nel periodo di Exile on Main St. i Rolling Stones  erano andati in Costa Azzurra perché inseguiti dal fisco. Il manager gli dice ‘O pagate questa cifra o andate in galera.’ Loro si comprano tutti una villa in Costa Azzurra – mica scemi – tranne Mick che stava a Parigi, era un modaiolo e faceva la spola.
Certo, c’è tutta la parte di mitologia legata alle grandi suonate nella villa di Keith Richards.. poi in realtà, se non sbaglio, se vai a vedere cosa c’è nel disco e cosa sia stato effettivamente tenuto delle registrazioni in Costa Azzurra, secondo me molto poco, credo sia stato tutto rifatto e non so dove, qualcuno si è accorto che faceva cagare (sic). Il luogo ispira, ma a volte anche no.

Sennò a questo punto scegli la modalità degli Happy Mondays. Ti accorgi che all’ultimo mancano i testi, e alla fine della grande trasferta consegni un album solo strumentale.
Esattamente. Lì erano andati alle Hawaii, in effetti.
Alla base di tutto restano comunque gli uomini, che poi sono quelli che costruiscono le case. Per cui il bene o l’eventuale male si annida sempre negli esseri umani  prima. Sono gli uomini che fanno gli uomini.

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Francesco Bianconi. Foto: Laura Villa Baroncelli
Libro:
Atlante delle Case Maledette
Autore:
Francesco Bianconi
Illustrazioni:
Paolo Bacilieri
Anno:
2021
Casa editrice:
Rizzoli Lizard

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