Kengo Kuma racconta il futuro degli spazi del lavoro, incluso il suo

Abbiamo parlato con l’architetto giapponese di spazio e di lavoro, il suo, il nostro e quello di chi ci seguirà. Con una sorpresa: la fuga è un’opzione da non escludere.

domus - kengo kuma - portrait

“Trovare la propria dimensione nel lavoro può essere una questione di fuga, per trovare la propria libertà”. Ce la aspetteremmo una affermazione simile da Kengo Kuma? Dal filosofo dell’armonia e della contestualità, da chi ha esplorato la mistica dell’artigianato e della natura, spaziando dalle tea house ai complessi per uffici? La risposta dovrebbe essere sì, e proprio per queste stesse ragioni. Specialmente dopo che questi elementi – all’interno di una pratica professionale riflessiva e critica come quella di Kuma – sono andati a reagire con i cambiamenti che la pandemia ha fatto chiedere a gran voce, ma che non sembrano essere stati molto recepiti a livello globale. Per lo meno, non da molti.
Kuma, che in una carriera quarantennale ha progettato le masse postmoderne del M2 a Setagaya-ku come poi le espressioni contemporanee di lavorazioni tradizionali del legno nel GC Prostho Museum Research Center e nel museo-ponte Yusuhara, ed espressioni scultoree dal forte valore paesaggistico quale il V&A Dundee, ha abbracciato molto l’idea del cambiamento nella sua visione – ad essere più precisi, l’idea di evoluzione – specialmente in ciò che riguarda il lavoro, il suo ruolo nelle esistenze umane e il ruolo dello spazio in questa relazione. 

L’architetto giapponese sta ricercando attivamente un miglioramento dell’ambiente di lavoro attraverso il progetto, un’evoluzione necessaria, come afferma: “All’inizio del ventesimo secolo, potevamo identificare lo spazio di lavoro con la figura di un grattacielo di cemento: allora era efficiente, senza cellulari o pc, solo telefoni fissi che richiedevano uno spazio chiuso. Oggi l’ambiente è completamente diverso, ma le persone hanno mantenuto il modello di riferimento dei grattacieli, un comportamento del tutto stupido ora che abbiamo bisogno di uno spazio di lavoro modellato sulle nuove tecnologie informatiche”. 
Anche la tecnologia dell’informazione, però, dovrebbe essere considerata come un ambiente a più facce: è tanto uno strumento per ridefinire la prossimità, quanto un giogo a cui diventa sempre più necessario sottrarsi. Eppure, per il primo aspetto, potrebbe essere essa stessa la soluzione ai problemi implicati dal secondo. “Grazie all’informatica oggi possiamo lavorare circondati da una natura confortevole, da uno spazio di lavoro confortevole: è appropriato per gli spazi di lavoro, non costringe più le persone a lavorare tutte insieme in piccoli spazi. Tuttavia, gli architetti non stanno ancora lavorando per questo tipo di evoluzione, ed è un grosso errore: dovremmo essere noi a mostrare questo nuovo tipo di spazio di lavoro alle persone”.

Kengo Kuma and Associates, peraltro, sta lavorando in questi mesi al progetto Welcome, la ristrutturazione della ex sede Rizzoli nell’area orientale di Milano, insieme al botanico italiano Stefano Mancuso, che si annuncia come combinazione di un approccio biofilico – che integra vita naturale e vita lavorativa – con uno strumento spaziale che potrebbe suonare più familiare, ovvero il layout libero dell’open space. È questo il punto in cui Kuma articola in dettaglio la sua posizione sullo spazio di lavoro e sul ruolo della tecnologia: “È solo un primo passo”, dice, “e voglio farne un secondo, un terzo e così via. Credo che la cosa importante sia che le persone possano scegliere il loro posto di lavoro, dovremmo avere la perfetta libertà di scegliere il nostro stile di lavoro: alcune persone vogliono lavorare in un piccolo spazio molto chiuso, come una casa da tè giapponese, altre vogliono lavorare in un parco, in una foresta, in montagna. Ogni luogo è possibile per noi. E invece, ancora, le aziende spingono le persone a riunirsi in spazi limitati: un atteggiamento molto negativo, un sistema di controllo dentro il quale siamo tenuti come per una sorta di convenienza, un sistema da cui dovremmo fuggire, che ci dovremmo lasciare alle spalle”.

È qui che si manifesta la doppia natura della connettività e anche dove, secondo Kuma, si dovrebbero prendere i provvedimenti più radicali: “Il rischio di essere connessi è di essere controllati da internet stesso. La mia strategia per sfuggire a questo tipo di sistema è a volte quella di interrompere la connessione, di tagliarmi fuori dalla rete. Se voglio concentrarmi, scappo dalla città: ho una piccola capanna nella foresta dove passo il tempo a pensare, scrivere, disegnare... Tutti hanno bisogno di questo tipo di spazio di fuga nella natura: può darci la libertà di cui abbiamo bisogno per pensare”.

Ha molto a che fare con l’approccio personale di Kuma al progetto come pratica, sperimentato fin dai primi anni ‘90, quando per la prima volta aveva spostato l’attività del suo studio fuori città per entrare in contatto con le conoscenze e l’artigianato locali. La pandemia, questa volta, ha rappresentato un punto di svolta nel graduale evolvere di questa riflessione: “Quello che ho effettivamente cambiato durante il Covid è stato il mio stile di lavoro. Non andando in ufficio ho iniziato a camminare nel mio quartiere e ho trovato molti spazi confortevoli: piccoli parchi, panchine nascoste, alcuni ristoranti segreti... Ho camminato in quegli spazi e ho lavorato. Si è instaurato un nuovo stile di vita, e finalmente ho potuto liberarmi dal lavoro e, va riconosciuto, tutto ciò è stato originato dal Covid. 
Ora non mi era più possibile tornare in ufficio, allora abbiamo studiato un sistema di piccoli satelliti nella campagna, e questo ci ha portato un’ispirazione nuova. Ci sono ancora gli uffici a Tokyo, Parigi, Pechino e Shanghai, ma abbiamo questi piccoli spazi in Hokkaido e sull’isola di Okinawa. Io lavoro tra questi uffici, ed è questo a stimolare il mio cervello in un modo completamente nuovo”.

Immagine d'apertura: courtesy Europa Risorse

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