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Arenzano. Meraviglie e contraddizioni di un’acropoli sul mar Ligure

Tra il 1958 e il 1962, Domus presenta ai suoi lettori sei architetture d’autore costruite all’interno della Pineta di Arenzano, lottizzazione turistica pioniera del Ponente ligure.

Vico Magistretti, Casa Arosio, Arenzano, Italia. 1960. Foto Casali-Domus

La grande pineta a sud-ovest di Arenzano, all’ingresso della Riviera ligure di Ponente, fa la sua comparsa sulle pagine di Domus nel 1958, solo due anni dopo l’approvazione del piano di lottizzazione turistica redatto da Ignazio Gardella e Marco Zanuso. Nel lustro successivo, la rivista pubblica ben sei realizzazioni di questa innovativa gated community (la prima in Italia, secondo Stefano Guidarini), acropoli della villeggiatura sospesa 70 metri al di sopra del livello del mare, costruita per la ricca borghesia milanese dai migliori architetti della città, tra di loro anche Luigi Caccia Dominioni, Anna Castelli Ferrieri, Vico Magistretti, Roberto Menghi e Gio Ponti.

Brevi testi introduttivi, didascalie corpose, e tantissime fotografie di Giorgio Casali accompagnano il lettore alla scoperta di questo tratto di Riviera in trasformazione. Gli edifici di Arenzano sono raccontati da Domus innanzitutto come esperimenti d’integrazione delle nuove costruzioni nella natura, e come dispositivi di osservazione del paesaggio attraverso l’architettura. 

Marco Zanuso, Case Rosse, Arenzano, Italia, 1960. Foto Casali-Domus
Marco Zanuso, Case Rosse, Arenzano, Italia, 1960. Foto Casali-Domus

Così, l’albergo a Capo San Martino di Gardella (Domus 344, luglio 1958) è “un’architettura, movimentata, che crea un paesaggio nel paesaggio: tagli di muri, scorci, aperture, sono studiati per inquadrare e ‘sorprendere’ le vedute e il mare, e non lasciarsene invadere”. Anche la piazza disegnata dallo stesso Gardella e da Castelli Ferrieri (Domus 369, agosto 1960) ricerca un rapporto con l’intorno non immediato, non panoramico. Il complesso “escluderà la vista del mare e del verde, e ammetterà solo, a nord, la vista delle montagne lontane. Un ambiente ‘chiuso’ – è la qualità delle piazze – ma forato da visuali che segnalano l’esterno: come gli spacchi, molto stretti, agli angoli, dove gli edifici vicini non si toccano; e come il cannocchiale di veduta dall’ingresso, attraverso la profondità della piazza, alle montagne al di là”.

La villa di Ponti (Domus 395, ottobre 1962) e le Case Rosse di Zanuso (Domus 369) articolano pieni e vuoti, schermi e aperture, per ottimizzare l’affaccio sul mare. Le quinte di muro della prima privatizzano l’esperienza del paesaggio godibile dal soggiorno e da ogni camera da letto. Le seconde, a picco sulla scogliera che delimita il promontorio “guardano il mare dall’alto, e lo fronteggiano con facciate chiuse, come contrafforti. La massa delle due costruzioni, vicinissime e molto articolate (…) è tagliata dai passaggi, stretti e ripidi, come ‘carugi’”.

Sono i tetti giardino gli spazi d’eccezione della Casa Arosio di Magistretti (Domus 363, febbraio 1960) e della villa progettata da Gardella e Castelli Ferrieri (Domus 392, luglio 1962). Magistretti trasforma “tutte le coperture piane (…) in piccoli giardini pensili, comunicanti l’uno con l’altro e collegati, sul fondo, al giardino terreno (…). La costruzione non ha abolito il verde: l’ha sollevato, diremmo”. Anche il grande terrazzo di copertura di Gardella e Castelli Ferrieri è “tutto verde” e attrezzato come luogo di vita quotidiana: “qui si coltivano i fiori, qui si prende il sole (c’è anche una vasca di sabbia per le sabbiature), qui ci si stende sulle sdraio a godere il larghissimo panorama, come dal ponte di una nave”. Un espediente intelligente libera la vista da qualsiasi ostacolo: “perché il parapetto del terrazzo non riducesse la visuale, si è usato l’accorgimento di ribassare un poco la zona perimetrale di passaggio, rispetto all’area centrale del terrazzo. Il parapetto non la sovrasta che di quaranta centimetri”.

  

Storia di un’utopia mancata è il significativo sottotitolo della più nota e completa tra le monografie dedicate alla pineta, a cura di Marco Franzone e Gerolamo Petrone, pubblicata nel 2010. Arenzano, in effetti, non è solo un “museo all’aperto di arte moderna”, come la definisce Luigi Lagomarsino, a cui partecipano i sei edifici descritti da Domus, ma anche uno dei luoghi simbolo della parabola discendente della costruzione dei litorali italiani nel secondo Novecento. Dalla speranza della qualità (in questo caso, gli eroici inizi d’autore orchestrati dai “maestri” milanesi), all’esplosione della quantità (qui, la progressiva trasgressione dei vincoli volumetrici imposti in un primo momento dalla proprietà, con conseguente aumento della densità), e infine la constatazione dello scempio del paesaggio e la messa in discussione delle premesse culturali dell’urbanizzazione costiera.

Se si eccettua la ripubblicazione della villa di Ponti (Domus 439, giugno 1966), dal 1962 su Arenzano cala un sostanziale silenzio stampa. Fino all’ottobre 1977 (Domus 575), quando una citazione breve ma inequivocabile, annegata in un lungo articolo di Massimo Gennari, dichiara un radicale cambiamento di prospettiva.

  

La riflessione di Gennari, concentrata sulle ideologie e le metodologie del recupero dei centri storici in Italia, considera la città e il territorio non come fatti artistici, ma come la realtà politica e sociale in cui l’architettura e l’urbanistica intervengono. La dinamica di “colonizzazione” turistica delle coste nei due decenni precedenti è condannata senza appello, e con essa l’esperienza dell’enclave milanese del Ponente. “Basta consultare uno dei tanti ‘studi’ commissionati da enti privati e pubblici per nuove localizzazioni turistico-residenziali” afferma Gennari “per scovarci tutto un capitolo poco edificante (…) della storia dell’architettura contemporanea: Arenzano e Donoratico, Piani d’Invrea e Capo Stella, Punta Ala e Migliarino (…) rappresentano soprattutto un nuovo strumento di disarticolazione del tessuto storico e sociale attraverso il quale si sconvolge definitivamente ogni nesso funzionale tra sistema insediativo territoriale e corrispondente assetto produttivo”.

I tempi sono ormai maturi per mettere in prospettiva il ruolo dell’architettura in un’ottica più ampia di utilizzo virtuoso del territorio. L’”utopia” di Arenzano si apre così a una lettura più complessa, che proseguirà nei decenni successivi, in grado di riconoscerne tanto i pregi (l’eccezionale qualità e sperimentalità dei suoi migliori edifici), quanto i limiti e le storture (la privatizzazione del paesaggio “bene comune” per il profitto e il godimento di una ristretta élite).

Ignazio Gardella, Anna Castelli Ferrieri, villa, Arenzano, Italia, 1962. Foto Casali-Domus
Ignazio Gardella, Anna Castelli Ferrieri, villa, Arenzano, Italia, 1962. Foto Casali-Domus

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