Raumplan: “Le mostre sono occasioni per far lavorare insieme competenze diverse”

Il collettivo interdisciplinare indaga le trasformazioni domestiche e territoriali legate al capitalismo delle piattaforme.

“Failures”, veduta della mostra, Cascina Cuccagna, Milano, 2016. Foto Louis De Belle

Raumplan è un gruppo di professionisti che lavorano nel campo delle arti visive, exhibition design e curatela, nato a Milano nel 2014. Pietro Bonomi e Nicolò Ornaghi, due dei fondatori, raccontano il loro lavoro e parlano dei mutamenti urbani e territoriali a cui stiamo assistendo.

Siete un gruppo eterogeneo formato da diverse professionalità, con retroterra e metodologie operative molto diverse. Ci parlate del vostro processo di lavoro?
P.B.
Generalmente litighiamo. Direi che questa è l’unica costante metodologica. Credo che da un lato ci sia il fatto che ciascuno di noi, per motivi diversi, ha come una smania di volersi occupare di tutto, quasi tradendo una sotterranea sfiducia e un sentimento di insufficienza della propria materia… In realtà, io credo molto nell’autonomia disciplinare e i tentativi di “sincretismo” mi sembrano sempre cose poco serie. Il nostro lavoro parte dal rispetto delle discipline e dal concepire la conoscenza come lavoro, lavoro che è sempre da fare e mai dato per acquisito.

Certi vostri progetti, scritti e riferimenti architettonici, mettono in luce una certa vostra affinità con la tradizione, perlomeno per le fondamenta teoriche dalle quali operate. La vostra struttura di lavoro è invece fluida e contemporanea. Come spiegate questa doppia natura?
P.B.
I contenuti teorici non sono mai intesi come spiegazione di ciò che c’è in mostra o di ciò che si produce: sono semplicemente l’esito di un lavoro fatto fianco a fianco su temi condivisi. La teoria si trova in un rapporto paritario rispetto ai lavori prodotti, risultando dunque allo stesso tempo autonoma e non autoritaria. È un prodotto come gli altri. Noi intendiamo le mostre come l’occasione per far lavorare di concerto tante professionalità e competenze diverse, offrendo al visitatore i contributi di più discipline sullo stesso tema.

Il nostro lavoro parte dal rispetto delle discipline e dal concepire la conoscenza come lavoro, lavoro che è sempre da fare e mai dato per acquisito.

Da dove credete derivi il rinnovato interesse verso l’architettura degli interni?
N.O.
Io credo che derivi esclusivamente da contingenze momentanee ostili alla professione dell’architettura, perlomeno in Italia. Nessuno è contento di ristrutturare appartamenti con 450 euro a metro quadro se può lavorare per un imprenditore edile più munifico e disponibile. Questa condizione evidente è stata in quell’occasione un pretesto per portare un piccolo contributo sul tema del disegno domestico. Perché in fin dei conti, se ti ci ritrovi a farlo, disegnare interni non è poi così male. In occasione della mostra “Alte Meister Komödie” alla Villa Vertua di Nova Milanese, ci siamo rivolti al più grande disegnatore di interni dell’epoca moderna, ovvero Adolf Loos. Per molti anni della sua carriera ha disegnato solo interni, peraltro piuttosto complessi - benché sia stranamente noto, ai più, come un ascetico facciatista. In realtà, negli interni di Loos c’è una grande generosità e attenzione alla vita, cosa che oggi manca e che forse andrebbe recuperata.

Con “Capitalism is Over”, una mostra da voi curata per la Milano Design Week 2017, avete approfondito alcune conseguenze spaziali delle modalità di produzione economica del nuovo capitalismo. Come stanno cambiando i nostri territori?
N.O.
La mostra aveva un titolo evidentemente ironico (la sezione principale si chiamava “But it used to be so cool”). Abbiamo impostato un percorso che aveva come estremi teorici e storici Olivetti e Amazon, rappresentanti – forse non paradigmatici ma comunque tipici – di due epoche ben distinte nel capitalismo del secondo Novecento: quella keynesiana dal 1945 ai primi anni Settanta e quella della finanziarizzazione che arriva fino a oggi. Le conseguenze spaziali nel passaggio tra i due periodi sono notevoli: lo spazio diventa sempre più generico e standardizzato. Nel passaggio dalla qualità degli spazi di Ivrea all’estetica asettica della logistica avanzata, si rende esplicita la parallela perdita di valore del lavoro.

Prendiamo per esempio il modello di Amazon come paradigma. In che modo un modello economico può arrivare a modificare le nostre abitudini domestiche?
P.B.
Negli Usa, la multinazionale ha attivato un servizio che si chiama Amazon Key: al prezzo di 250 dollari installano a casa tua una serratura smart e una cloud-cam con cui puoi monitorare in remoto le operazioni di consegna (o di prelievo se sei un venditore). Ma è chiaro che si potrebbe facilmente estendere il sistema anche a servizi come pulizie, baby-sitting o affitto di camere. È un’innovazione di notevole valore simbolico non meno che effettivo: significa lasciare letteralmente le chiavi di casa alla piattaforma. Cade l’ultimo intermediario: la soglia di casa, il diaframma fra casa e piazza, fra spazio dell’intimità e spazio commerciale. In “Trouble Making”, la mostra che presenteremo durante il Fuorisalone 2018 a BASE Milano, ci occuperemo dell’impatto di simili modificazioni sulla città, sul lavoro e sulla vita di tutti.

Questa intervista è parte di “Superdomestico. A dialogue on the new obsession for domesticity”, una ricerca a cura dello studio casatibuonsante architects e ciclo di conferenze promosse e ospitate da Ostello Bello, a Milano. L’obiettivo è quello di analizzare l’ambiente domestico e i suoi cambiamenti rispetto ai meccanismi del sistema economico contemporaneo. La prima serata sarà ospitata all’Ostello Bello di Milano in via Medici 4, il 28 febbraio alle ore 19:00. Si parlerà di #Supercity con åyr e Raumplan.

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