Le emozioni del costruire

Dopo Solano Benitez e Francis Kéré, il vincitore della terza edizione del BSI Architectural Award è Bijoy Jain, scelto per il metodo di lavoro collettivo attraverso il quale si sviluppa la ricerca di un rapporto con la storia e la memoria del luogo.

Bijoy Jain, cofondatore in India nel 2005 dello Studio Mumbai, che ha vinto il terzo Swiss Architectural Award bandito dalla Fondazione BSI, proviene da un piccolo villaggio nei dintorni di Mumbai. Qui ha familiarizzato con le emozioni del costruire, sentimento collettivo condiviso trasversalmente da ogni cultura. E si è fatto l'opinione che sia qualcosa di più importante dell'oggetto che viene costruito: "L'architettura è l'idea di una comunità: l'architettura costruisce queste emozioni e la costruzione è il punto della coincidenza, qualcosa che ci unisce."

La posizione di Jain ben si accordava con il Common Ground, il "territorio comune" tema della Biennale Architettura di Venezia di quest'anno, cui la BSI partecipava con una mostra collaterale allestita alla Fondazione Querini Stampalia dal 22 settembre al 7 ottobre. Mario Botta, presidente della giuria, non poteva essere più d'accordo con Jain: "Non è possibile costruire individualmente", ha dichiarato a una tavola rotonda di cui è stato moderatore alla Fondazione il 22 settembre, cui partecipavano Jain, nato nel 1965, e i precedenti vincitori del premio della BSI: Solano Benitez e Diébédo Francis Kéré.

Ma, a parte questo, la presenza a Venezia del premio trascendeva gli obiettivi della Biennale di quest'anno per la specifica sensibilità in materia di tutela dell'equilibrio ambientale e della qualità della vita di fronte alla globalizzazione, nel suo ruolo di istituzione di collegamento con l'architettura e con la sua spiccata attenzione di quest'anno per l'India, l'Africa e il Sudamerica. Lo Studio Mumbai è stato scelto per questo premio biennale in una rosa assolutamente straordinaria di 26 candidati di 12 Paesi (presentati in un libro edito nel 2012 dalla Mendrisio Academy Press e da Silvana Editoriale, a cura di Nicola Navone) per l'originalità del processo di elaborazione dei suoi progetti oltre che per la loro qualità, "fondata su un raffinato sapere di tipo artigianale reinterpretato ed esaltato attraverso la costante interazione del progetto e della costruzione".

In apertura: Francis Kéré, vincitore della seconda edizione del BSI Architectural Award nel 2010. Qui sopra: Bijoy Jain, vincitore del BSI Architectural Award nel 2012. Photo Enrico Cano
In apertura: Francis Kéré, vincitore della seconda edizione del BSI Architectural Award nel 2010. Qui sopra: Bijoy Jain, vincitore del BSI Architectural Award nel 2012. Photo Enrico Cano
Lo Studio Mumbai rispondeva più che pienamente ai requisiti del bando, non avendo una storia superiore ai cinquant'anni e vantando almeno tre opere profondamente significative: casa Palmyra (che procurò allo studio una fama istantanea), casa Copper nel Maharashtra e il Leti 360 Resort di Uttarachai. Ma il premio di 100.000 franchi svizzeri è andato alla scelta da parte dello studio di un metodo di lavoro collettivo attraverso il quale, ha aggiunto Botta, si sviluppa la ricerca di un rapporto con la storia e con la memoria del luogo. Decisiva è l'evoluzione di questa scelta in direzione di "un linguaggio contemporaneo costruito sull'integrazione dei livelli della conoscenza invece che immerso nella nostalgia", requisito assolutamente indispensabile per i promotori del premio.
Jain definisce l'identità dello Studio Mumbai come "un'infrastruttura umana fatta di artigiani e architetti competenti che progettano e costruiscono in proprio l'opera", in un processo iterativo che analizza le idee attraverso prototipi di grande scala, modelli, studi sui materiali, schizzi e disegni. Il BSI Award osserva una notevole coerenza nelle sue scelte, la prima delle quali individuò nel 2008 Benitez, per la sua ricerca architettonica svolta nel difficile contesto politico ed economico del Paraguay, "ben lungi dai processi imposti dalla globalizzazione". Il premio andò a Kéré nel 2010 per "la sua architettura essenziale e intelligente che non concede nulla alle componenti sovrastrutturali", per usare le parole della giuria.

Jain, che lavora a quaranta minuti di viaggio da Mumbai, sta ora allestendo un secondo studio in città, ma rimane deciso a rivendicare la capacità coerente, benché ormai rara, di soddisfare le esigenze di tempo e di qualità in modo sostenibile e duraturo. Alla tavola rotonda ha parlato della situazione indiana: "Funziona grazie al caos", che "impedisce al sistema di prendere il sopravvento assoluto". In un Paese con 120 lingue diverse, una miriade di culture alimentari, di costumi e perfino di strutture ossee, "come possiamo conservare questa ricchezza?" Come diceva Roberto Rossellini si tratta di uno "stomaco" che digerisce tutto, e il segreto sta nell'assorbire la globalizzazione in modo che fonda la cultura locale ma conservi "la nostra identità".
Jain definisce l'identità dello Studio Mumbai come un'infrastruttura umana fatta di artigiani e architetti competenti che progettano e costruiscono in proprio l'opera.
Palmyra House di Studio Mumbai
Palmyra House di Studio Mumbai
A proposito di Kéré, che conosce da quattro anni, Jain giudica raffinate le sue doti e afferma che "entrambi ci fondiamo sui bisogni", mentre Benitez, che usa solo materiali di recupero (Jain predilige il grezzo) è certamente una fonte d'ispirazione. "Mi interessa il modo di trasferire la sperimentazione in luoghi diversi", aggiunge. È un punto fondamentale. Jain qualche anno fa ha usato il gesso per il suo modello a grandezza naturale di una baracca di Mumbai nella galleria delle Cast Courts del Victoria and Albert Museum. Kéré, che faceva parte della giuria di quest'anno, ha iniziato a costruire ancora da studente e ha raccontato un aneddoto sulla prima scuola d'architettura che fondò nel suo paese natale, il Burkina Faso. Privo delle risorse necessarie a realizzarla sul tipico modello d'importazione francese e in base alla sua predilezione per l'argilla, trovò delle donne specializzate nella costruzione di pavimentazioni d'argilla, e i muri d'argilla alti tre metri che ne risultarono sono sopravvissuti a piogge torrenziali, con sua stessa sorpresa.
Francis Kéré, scuola a Dano. Photo Enrico Cano
Francis Kéré, scuola a Dano. Photo Enrico Cano
Oggi Kéré è un esperto generalmente riconosciuto nell'applicazione e nell'insegnamento delle tecniche di colatura dell'argilla rinforzata, stabilizzata con il cemento, che oggi vengono adottate nel suo paese natale. Ma a Ginevra, incaricato quest'anno di progettare per la Croce Rossa un'installazione a tema sulla ricostruzione dei vincoli familiari (l'architetto brasiliano Gringo Cardia sta progettando uno spazio a difesa della dignità umana e Shigeru Ban uno sul rifiuto del destino) Kéré ha spiegato che il museo gli ha chiesto di pensare a un materiale diverso dall'argilla, troppo costosa da usare laggiù. Non è stato un problema per il versatile Kéré, vincitore del Gold Holcim Award con Gando, la sua scuola secondaria del Burkina Faso dotata di un sistema di ventilazione passiva, completata nel 2011.
Solano Benitez, quartier generale della Unilever. Photo Enrico Cano
Solano Benitez, quartier generale della Unilever. Photo Enrico Cano
Entrambi stranieri nella 'vecchia' Europa, Jain e Kéré sono vitali guide pedagogiche delle rispettive comunità. Nicola Navone ritiene che la ricchezza propositiva del processo collettivo di Jain possa "diventare una specie di 'eredità' di idee su cui contare in futuro". "Hanno poetiche diverse", osserva Botta, "che non sono riducibili a un denominatore comune, se non forse per uno speciale interesse per la componente artigianale del processo costruttivo e per i vantaggi che ne derivano" e "per le fortissime affermazioni territoriali, per la tensione morale e per la gioia di vivere". Nella città natale di Jain, dinamico simbolo della nuova geografia economica, culturale e sociale indiana, la sua etica collettiva e la consapevolezza critica dei suoi processi gli saranno molto utili. "Un edificio, come un corpo, è in grado di espandersi. È questo il valore fondamentale di quel che facciamo: la trasformazione." "La cultura della modernità è molto fragile", ha affermato Botta, "è nostra responsabilità assumerci dei rischi". Lo ha colpito "l'ampiezza della gamma di posizioni documentate" da tutti i potenziali vincitori, che non può che contribuire "ad ampliare il dibattito sullo stato attuale della nostra disciplina"; nonché sulla sua futura espansione.

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