New Babylon, il progetto di Constant di “una città per l'homo ludens”, di un "campo nomade su scala planetaria", nasce nel 1956 ad Alba, nell'accampamento dei sinti piemontesi accolti dal pittore Pinot Gallizio sui suoi terreni. Cinquant'anni dopo, Domus è tornata in quei luoghi per ricostruire le origini della prima utopia nomade della storia dell'architettura.
Testo di Francesco Careri. Fotografia di Armin Linke. A cura di Francesco Careri (stalker/osservatorio nomade), Elena Sommariva
 
Note sull’urbanismo unitario

Il primo agosto scorso è morto Constant. Lascia al mondo dell’arte e dell’architettura una molteplice e contraddittoria eredità: c’è chi di New Babylon “ha copiato solo le forme senza prenderne i contenuti”, come lui stesso mi aveva detto a proposito di tante architetture opulente che offrono un’immagine ludica e colorata al neocapitalismo trionfante. C’è chi ha continuato la strada utopica e visionaria del nomadismo antiarchitettonico – forse l’aspetto più affascinante di New Babylon – e penso alla Walking City di Archigram, alle griglie energetiche di Superstudio fino alle recenti e a volte ridicole versioni del neo-pop digitale. E, ancora, c’è chi costruisce reti informatiche, realizzando New Babylon in scala digitale; chi ne sperimenta la vita liberata in occupazioni, autogestioni e nuove comunità; chi ripropone l’approccio creativo e interdisciplinare dell’urbanismo unitario cercandovi risposte per l’attuale città multiculturale.

Questa ultima strada, che era alle fondamenta di New Babylon, offre oggi possibilità impensabili all’epoca dei situazionisti, forse troppo impegnati a costruirne la teoria e lo spazio, troppo poco alla ricerca di un luogo, di un terreno concreto in cui mettersi in campo. Proviamo a ripartire da Alba cinquanta anni dopo, da quella comunità di sinti piemontesi ai quali Pinot Gallizio aveva donato un terreno e Constant un progetto: l’idea di non imporre ai nomadi un’urbanità sedentaria, ma al contrario di prenderne a modello lo stile di vita per proporre al mondo intero un diverso modo di abitare lo spazio.

La storia è andata però in un altro modo. La rivoluzione non è arrivata e quella società multiculturale che avrebbe dovuto costruire New Babylon si trova oggi tra le discariche delle zone più periferiche delle nostre città e dei nostri pensieri. Il campo dei nomadi di Alba non è stato per i situazionisti un “terreno di gioco e di partecipazione”. L’urbanismo unitario, che lì aveva trovato un campo concreto su cui giocare, non ci ha giocato, non si è messo in campo. Malgrado i proclami per un’arte collettiva da applicare allo spazio urbano, i situazionisti non sono riusciti a trovare un terreno comune dove sperimentare le capacità dei singoli membri: quelle da costruttore di reti di Asger Jorn, abile seduttore e potenziale regista di tante squadre interdisciplinari da mettere in campo; quelle di costruttore di senso di Guy Debord, capace di caricare di significati politici e filosofici gli aspetti che mano a mano emergono dal campo; quelle da costruttore di spazi di Constant capace di tradurre in poesia tridimensionale le qualità dello spazio nomade; quella di costruttore di relazioni di Pinot Gallizio, capace di intessere fili tra la realtà concreta del campo nomadi e il mondo politico e culturale di Alba.

Capacità ancora oggi fondamentali per trasformare spazi complessi. L’urbanismo unitario non è sopravvissuto alle espulsioni, alle dimissioni e alle vanità artistiche dei suoi singoli membri. I concetti di antibrevetto e di non autorialità, seppure ben formulati, non sono stati spesi proprio lì dove sarebbero serviti per attivare processi creativi di trasformazione collettiva e partecipata. Oggi, seppur in misura ancora insufficiente, lo scenario sembra mutato. Ci sono amministrazioni che affrontano situazioni difficili e atrofizzate non con le usuali procedure urbanistiche, ma affidandosi alle possibilità dell’arte pubblica e in molti cominciano a ricevere da queste operazioni benefici e ritorno politico.

Il mondo culturale con fondazioni, centri d’arte e università comincia a impegnare risorse in questa direzione. Negli studenti inizia a nascere un desiderio di mettersi in campo piuttosto che al computer, di partecipare da vicino alle trasformazioni del territorio portando le proprie capacità a servizio della collettività, di rendersi utili a chi ne ha bisogno piuttosto che agli studi professionali dello star-system griffato. Ma c’è bisogno delle persone giuste, che sappiano veramente lanciarsi nella creatività collettiva superando l’autorialità, la firma, il brevetto, che sappiano costruire reti, estrapolare significati, fornire visioni, costruire relazioni e istigare processi trasformativi.

I campi nomadi sono i luoghi simbolo delle peggiori realtà urbane in cui da secoli abbiamo relegato l’altro. Sono passati cinquant’anni e siamo sempre lì, sulle rive del Tanaro a domandarci se abbia senso progettare un campo nomade, se abbia senso progettare l’instabile, il transitorio, l’incerto. È chiaro che se non la si affronta in termini culturali, la progettazione di questi spazi rimarrà ai tecnocrati di partito, agli approfittatori o peggio alle questure. Il campo nomadi di Alba continua a essere una scommessa per tutti.
 
Francesco Careri, architetto, è tra i fondatori di stalker/osservatorio nomade, laboratorio d’arte urbana. È autore del volume Constant. New Babylon, una città nomade (Testo & Immagine, Torino, 2001). Dal 2005 insegna Arte Civica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Roma Tre