La pietra di Gerusalemme per ripensare gli stereotipi architettonici

Da Betlemme alla Biennale di Venezia, la ricerca dei fratelli Anastas sul potenziale linguistico della stereotomia mette in primo piano l’utilizzo di un materiale antico, tra loale e globale. L’intervista.

Per leggere la portata simbolica di All-purpose, l’ultima installazione che i fratelli Anastas hanno presentato alla Biennale di Architettura di Venezia di Hashim Sarkis, qualche considerazione sull’uso storico della pietra locale in Palestina può costituire un compendio importante.

Materiale da costruzione privilegiato dell’architettura araba tradizionale, come i nuclei dei vecchi villaggi e persino delle vecchie rimesse agricole tra le colline di ulivi, quella che oggi tutti chiamano “pietra di Gerusalemme” prende una connotazione coloniale – “entra nell’agenda politica”, ci dicono gli Anastas – con l’arrivo del protettorato britannico negli anni ’30. Per uniformare l’estetica della città, gli inglesi impongono che tutte le nuove costruzioni siano rivestite in pietra di Gerusalemme. L’arrivo del cemento armato non cambia la consuetudine né la legge: le case di Israele e Palestina – comprese quelle dei boom edilizi degli ultimi anni, e stranamente senza nessuna sostanziale differenza tra le due parti del muro – sono oggi rivestite sotto un sottile strato di pietra a coprire il calcestruzzo, come avvolte da un velo di make-up. Parliamo dunque di un’apparente uniformità che in molti vivono come una clausola di garanzia dai rischi di un’accelerazione immobiliare non pianificata, ma che finisce per rivelarsi un limite linguistico nonché un’omologazione distorta e subdola: come un belletto, la pietra che avvolge ma non sostiene è sostanzialmente un falso.

AAU Anastas, All-purpose, 2021. Biennale di Architettura di Venezia 2021. Foto Antonio Ottomanelli
AAU Anastas, All-purpose, 2021. Biennale di Architettura di Venezia 2021. Foto Antonio Ottomanelli

Ultimo capitolo di una ricerca, quella di Stone Matters, avviata sei anni fa sulla riscoperta della pietra e sul suo potenziale stereotomico, All-Purpose esprime e rinnova questa serie di considerazioni nella loro portata architettonica. “Pensiamo che ci sia una linea sottile tra quello che facciamo in un contesto realmente specifico, e il discorso sul nostro progetto su scala globale”, ci raccontano. “Quello che presentiamo alla Biennale è una forma tipologica dell’abitare basata su una struttura in pietra con diverse cupole che identifica un modello abitativo sviluppato su un unico piano. La struttura è ispirata alle tipologie che troviamo in Palestina, ma le cupole offrono anche una relazione tra gli spazi interstiziali e gli spazi esterni. È un nuovo habitat, dunque, che racconta qualcosa sia di quello che i format espositivi nel campo dell’architettura dovrebbero esporre, sia di una dimensione strettamente contestuale che non riguarda solo l’architettura ma anche la politica: usiamo la pietra con tutto questo in mente”.

In questa mediazione tra locale e globale, la pietra torna ad avvicinare pubblici eterogenei, e soprattutto si riposiziona verso un uso che corrisponde alla sua natura e tipologia. Senza inseguire alcun tipo di mimetismo o di riferimento vincolante, l’astrazione della struttura è dunque tanto un modello concettuale che una sperimentazione formale che un racconto palestinese: un All-Purpose, come il nome stesso ci insegna, fluido e flessibile per i mille potenziali usi a cui si vorrà aprire.

Eppure, la sua voluta trasversalità non manca di rappresentare una ricerca formale puntuale, peraltro diversa dagli esiti dei precedenti capitoli di Stone Matters: troppo slanciata per ricordare fino in fondo l’architettura vernacolare mediorientale, la volta si lascia penetrare in maniera inaspettata da passaggi di luce che si insinuano tra i profili irregolari dei blocchi di pietra. Una suggestione, inattesa e quasi magica, volta a destabilizzare la purezza della forma, e a ricordare l’inevitabilità dell’irruzione dell’ambiente esterno in qualsiasi tipo di habitat.

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